Il governo fascista del Regno d'Italia (1922 - 1943), oltre ad esercitare un attento controllo su tutti gli aspetti della vita quotidiana dei cittadini, ebbe anche la pretesa di imporre regole rigide e talvolta grottesche sul linguaggio: basti pensare all'uso del famigerato "Voi" al posto del "lei". Senza alcuna cognizione dell'immenso patrimonio culturale da essi rappresentato, si cercò in tutti i modi di estirpare l'uso dei dialetti; furono italianizzati e storpiati cognomi e toponimi delle popolazioni di confine; si arrivò a bandire l'uso di parole straniere.
Il Club Alpino Italiano non attraversò indenne questo clima culturale: la parola "Club", di origine britannica, venne abolita. Pensa e ripensa, nel 1938 i parolieri del regime coniarono una nuova denominazione, di certa italianità e di sicuro contenuto virile: "Centro Alpinistico Italiano". L'acronimo era salvo, la purezza della lingua anche. Le sorti dell'associazione un po' meno.
Lo stemma, che come ogni emblema racchiudeva profondi significati simbolici, subì una radicale trasformazione al termine di un processo peraltro già iniziato qualche tempo prima.

Sparito il binocolo (pericoloso richiamo alle mollezze della contemplazione), fecero la loro comparsa nel cartiglio, ora tronco, due nodi delle guide, ed un fascio littorio caricato nella parte inferiore dello scudo. L'aquila imperiale, stilizzata, prese il posto della precedente, troppo svolazzante.
Ma i danni veri furono ben altri. Perfettamente consapevole del fatto che la montagna è il regno della libertà per eccellenza e che i soci erano sì una ristretta elite, ma di liberi pensatori, il governo sottopose il CAI ed i suoi iscritti ad un controllo più rigido.
Risalgono a quegli anni i primi tentativi di istituzione delle "patenti" da alpinista, riproposte in tempi recenti, guarda il caso, proprio da esponenti politici culturalmente contigui a quel periodo.
Fagocitato nel CONI, il Centro Alpinistico Italiano perse buona parte delle sue prerogative associazionistiche divenendo, di fatto, una succursale del PNF ed un volano di propaganda.

Il Presidente generale, non più eletto dal corpo sociale, fu nominato direttamente dai vertici politici; tale carica fu a lungo ricoperta da Angelo Manaresi, che anche nell'esercizio delle sue funzioni di Presidente del CAI indossava l'uniforme da gerarca del partito fascista. Anche i Consigli direttivi delle Sezioni erano rigidamente controllati dalle strutture periferiche del regime. E onde evitare qualsiasi tentazione di autonomia e libertà, nel 1931 la Sede Centrale del CAI fu trasferita dalla natia Torino a Roma.

Dopo il periodo bellico la Sede Centrale ha trovato casa a Milano.

Mauro Brusa