

Arrampicare in fessura
di Federica Boggio
Male alle mani, polsi scorticati, dita sbucciate, l’arrampicata in fessura è anche questo. Ma quanto è bella?
Arrampicare in fessura è qualcosa di diverso dall’arrampicata che comunemente conosciamo, invece che salire tenendosi alle sporgenze della roccia se ne sfruttano i vuoti, incastrando mani, dita, piedi e anche tutte le parti del corpo.
Ognuno di noi ha mani e piedi diversi e questo la rende una tecnica molto soggettiva, si può dire creativa, perché per ognuno ogni fessura è diversa. Bisogna essere un po’ creativi per inventare il proprio incastro, capire la propria soluzione per riuscire a salire.
L’arrampicata in fessura nasce nell’alpinismo, dove è naturale seguire fessure e dietri, ma in passato le fessure venivano salite piantando dei chiodi, cui si appendeva una staffa che veniva utilizzata per issarsi, senza scalare.
In seguito, si è diffusa l’arrampicata libera, dove i chiodi che venivano fissati non servivano più come mezzo di ausilio per la salita, ma avevano unicamente la funzione di sicurezza in caso di caduta, scalando da un chiodo all’altro.
L’arrampicata libera si è poi divisa in due rami principali: l’arrampicata sportiva e l’arrampicata tradizionale.
L’arrampicata sportiva, la più diffusa in Italia, si svolge grazie a chiodi a espansione che vengono inseriti a distanza ravvicinata tra loro con un trapano. Hanno portata elevata e restano fissi sulla parete.
L’altro ramo è l’arrampicata tradizionale che non prevede l’uso di chiodi fissi, ma di attrezzi che vengono infilati direttamente nelle fessure e poi rimossi in modo da lasciare la parete pulita. La pratica di questa disciplina, già molto diffusa all’estero e in particolare negli Stati Uniti, sta prendendo sempre più piede anche in Italia per via della diversa attenzione che pone nei confronti della roccia e dell’ambiente. L’idea è proprio di evitare di rovinare la roccia, oltre che di lasciare la via “pulita” agli scalatori successivi, che dovranno salire come se fosse la prima volta.
Fatta questa premessa, parlando di arrampicata in fessura si intende uno stile ben definito, all’interno dell’arrampicata tradizionale, caratterizzato dalla tecnica dell’incastro.
Questa tecnica vede le sue origini nel Regno Unito, per poi svilupparsi in California. Terra di immense pareti di granito caratterizzata da roccia molto dura e compatta in cui sono presenti fessure che corrono lungo enormi placche senza quasi che vi sia la presenza di altri appigli. Qui diventa naturale e necessario sfruttare le fessure per salire.
Negli anni ’60 e ’70 l’arrampicata e l’alpinismo diventano uno strumento hippie per discostarsi dai costumi sociali. Coerentemente con tale approccio gli arrampicatori della California decidono che bisogna preservare la roccia e iniziano a usare i nut invece che i chiodi, incastrandoli nelle fessure per poi rimuoverli. Così facendo, come si diceva, si evita la chiodatura continua delle fessure e si riesce a preservare la roccia.
In Italia l’arrampicata in fessura arriva grazie al fisico scozzese Mike Kosterlitz, che entra in contatto con il neonato gruppo del Nuovo Mattino, il ’68 dell’arrampicata italiana che si proponeva di abbandonare il mito della vetta in favore della bellezza dei gesti.
Kosterlitz fa conoscenza con Motti, uno degli elementi di spicco del Nuovo Mattino, e insieme vanno in Valle Orco dove Mike sale con la tecnica ad incastro un masso con la famosa fessura che poi prenderà il suo nome.
Si tratta di una fessura complicata, un’altezza di circa 7 metri ma caratterizzata da uno strapiombo iniziale con una fessura troppo stretta per riuscire a incastrare le mani ma troppo larga per incastrare le dita e dove i bordi sono arrotondati. Questo rende talmente difficile la salita con la tecnica tradizionale (non ad incastro per intenderci) che ci vorranno 8 anni prima che la Kosterlitz venga salita di nuovo, diventando un vero e proprio status symbol della Valle Orco.
La tecnica ad incastro si sta sempre di più sviluppando anche perché saper incastrare aiuta non solo nell’arrampicata ma anche nell’alpinismo dove si sfrutta la sua utilità in termini energetici: un incastro può fare un po’ più male, ma rispetto a tenere una presa, soprattutto se piccola, è molto meno faticoso.
Venerdì 24 è venuto alla Sala Monviso al Monte dei Cappuccini Lorenzo Carrozza, ospite del gruppo giovanile, proprio per raccontare qualcosa su questa tecnica.
Lorenzo ha di recente pubblicato Crack Attack! Manuale per aspiranti arrampicatori in fessura per aiutare anche da un punto di vista teorico chi si affaccia a questa tecnica.
Ci racconta che il suo rapporto con l’arrampicata in fessura è nato qualche anno fa vedendo delle foto di scalatori americani che arrampicavano nel deserto dello Utah su delle pareti rosso fuoco liscissime, ma solcate da tagli.
Incuriosito, ha cercato delle falesie vicino a casa con delle fessure ed è andato a provarle. Non conoscendo l’esistenza di una tecnica specifica ha provato a salire tirando i bordi, ma così facendo tornava a casa sfinito e con pochi risultati.
Successivamente, ha conosciuto persone che praticavano l’arrampicata in fessura e così ha imparato e acquisito esperienza, ha studiato e alla fine è riuscito ad arrampicare in dei posti rinomati, proprio come la Valle Orco, che incutono un po’ di timore agli arrampicatori perché caratterizzati da questo stile di arrampicata che generalmente è difficile da conoscere e praticare.
Visto il suo percorso si è reso conto che serviva un manuale che andasse a colmare quel vuoto che lui aveva incontrato quando si era approcciato per la prima volta all’incastro e così ha scritto Crack Attack, perché potesse essere un punto di partenza per i neofiti o un elemento di approfondimento per chi già aveva un po’ di pratica.
Insomma, un manuale da non perdere che si “incastra” tra il materiale necessario per imparare questa tecnica sempre più diffusa.
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