

Noi siamo letteratura
di Federica Boggio
Abbiamo fatto una bellissima chiacchierata con Valeria Tron. Ma chi è Valeria?
Figlia della Val Germanasca, oggi si divide tra Rodoretto e San Secondo di Pinerolo.
È scrittrice, cantautrice, restauratrice del legno, illustratrice, ma lei preferisce chiamarsi artigiana.
Le piace definirsi così perché ritrova nel concetto di artigiano la propensione alla curiosità, al voler imparare e migliorarsi sempre. L’artigianato come un continuo apprendistato. Un motto di vita, insomma.
“Sono un’eterna curiosa. Piena di domande da sanare, pensieri da ruminare per renderli concreti il più possibile. Studio, mi informo, e questo non fa che dilatare lacune che vorrei subito ricolmare. Amo le mie mancanze, perché mi mettono perennemente in moto”.
Questo, e la negazione di ogni etichetta o di ogni specializzazione, la rende un’artigiana puntigliosa, perché è così che si approccia alle attività che la impegnano, sia che si tratti di lavorare il legno, di scrivere, disegnare o fare l’orto.
Si sente figlia di montagna, ma allo stesso tempo ci spiega che la montagna non è semplice questione di altitudine, bensì di attitudine.
Il legame con la terra e la natura, l’accoglienza, la necessità di non veder morire le cose, questi sono gli elementi che le sono cari e che, allo stesso tempo, la fanno sentire a casa ovunque possa ritrovarli.
“Ha un sentimento allargato la parola casa”, ci dice.
La sua stessa lingua, il patois, è una lingua di terra che la mette in relazione, per risonanza, a tutte le altre.
Per questo ama ridefinire il concetto di radice come comunemente inteso.
“Il concetto di radice, per me, è sovente utilizzato in modo improprio, come qualcosa che pianta in un punto dal quale è difficile scollarsi.
In realtà, espandendo il ragionamento, la radice è il nostro punto di partenza, attraverso il quale tendiamo verso l’altro. E’ uno strumento che permette di comunicare a distanza, così come gli alberi comunicano attraverso l’impianto radicale. Ti permette, perciò, di sintonizzarti per “tensione”, come un prolungamento vivifico in grado di intrecciare sensibilità e culture”.
Leria, così la chiamano gli amici (perché dalle sue parti tutti hanno un soprannome, che spesso ti racconta meglio del tuo vero nome), ci ha parlato del suo ultimo libro, Pietra dolce, del rapporto con le sue valli, della sua lingua e, un po’ in generale, della sua visione del mondo.
La montagna dà la minestra. Una frase che ricorre in Pietra dolce, esprime in poche parole quella che è l’idea di Leria sul suo ambiente.
“In montagna si impara ad attendersi” ci dice “Chiunque arrivi porta una storia, il libro che sta vivendo. C’è scambio tra chi arriva e chi accoglie. Le montagne per me non sono mai state un confine: sono piuttosto una grande cassa di risonanza per le voci e per l’incontro”.
Questo quindi il concetto fondamentale: la montagna è accoglienza.
E forse non è un caso che a dirlo sia proprio una donna originaria della Valli Valdesi, luogo che per secoli è stato riparo e cuore pulsante di queste genti.
L’amore per la sua casa la fa riflettere anche su quello che può essere il futuro delle valli.
“È controproducente, a mio avviso, pensare che la montagna vada ripopolata slegandosi dalle sue peculiarità, senza coscienza delle difficoltà e dei sentimenti portanti che servono per accudirla e trovare opportunità collettive. Bisognerebbe anzitutto avere cura dei custodi che la vivono e che possono accogliere chi arriva, consegnandogli le chiavi armoniche per rimanerci, amarla, rispettarla. Insieme, e solo collaborando, si può renderla un luogo felice, corale, come è sempre stato. Accogliere significa anche fornire le storie, le malizie, i nomi e, soprattutto, la lingua. C’è un’educazione sentimentale che va trasmessa”.
Qui ritroviamo un concetto caro a Leria, l’idea che la cultura non sia fatta solo di pensiero e non sia elitaria, ma che stia in ognuno, anche nelle mani che lavorano, nei gesti quotidiani e nell’attenzione per gli altri.
Non ho mai visto selvaggi, quassù. Umili, forse, ma non selvaggi.
In Pietra dolce emerge un lato dei montanari un po’ inedito, che solo chi conosce bene questo mondo può descrivere.
Emerge la parte materna degli uomini di montagna.
In generale, ci spiega Leria, ognuno di noi possiede una parte maschile e una femminile, apposta per essere bilanciate e tenerci in equilibrio nella nostra preziosa unicità.
Diventiamo più armonici, se riusciamo a parlare con entrambe le sensibilità, senza respingerle.
Il patois, per esempio, declina al maschile le parole di genere femminile, cioè tutto ciò che finisce in “o” è femminile. Questo, è evidente, rende ancora più irrilevante la distinzione.
Il patois è un elemento indistinguibile della Val Germanasca, che ne definisce in modo forte il carattere, ma che allo stesso tempo la collega con il resto del mondo.
Non ci si perde mai, se si possiedono due volte i nomi e buona memoria. Possiamo essere come l’acqua: scorrere da quassù fino al mare e sentirci sempre a casa.
Leria è innamorata della sua lingua “È una lingua di terra che si raccorda con tutte le altre e slega i confini. Il patois ha inventato la parola coraggio (da Cor, cuore), e ciò significa che il coraggio è legato alla speranza, più che alla forza. È una lingua piena di poesia che invita a prendersi cura di ciò che vive.
Inoltre, il patois usa lo stesso termine per indicare libro e libero (Libbre, in patois, significa libero. Libbre, in patois significa anche libro. Ha coniato una sola parola per indicarle entrambe. Come le mani: simmetriche per natura, funzionali alle stesse mansioni)”.
“Il patois è una lingua che si tramanda soprattutto oralmente. Ho incontrato, tra la mia gente, grandi narratori, e la quota della narrazione è l’immaginazione. È lei che apre varchi, orizzonti e possibilità. Si è tutti più musicali, nelle storie narrate”.
Parlando dei suoi romanzi vediamo che forse proprio da qui nasce un modo tutto particolare di scrivere.
Ci racconta che per lei il momento di creazione della scrittura avviene in modo spontaneo, ha iniziato a vivere quello che sarebbe diventato L’equilibrio delle lucciole (il suo romanzo di esordio) mentre faceva altre cose.
Scriveva, e scrive tutt’ora, interiormente, dall’inizio alla fine del libro, vivendo la storia insieme con i suoi personaggi, e poi utilizza la scrittura come se fosse uno sfiatatoio a rilascio lento: riuscendo a restituire sui fogli tutto quello che ha vissuto.
Questo la porta a scrivere per immersione, non può staccarsi quando inizia. Per mesi scrive tutti i giorni, isolata dal mondo il più possibile.
Questo non deve farci pensare che il suo sia un metodo di scrittura che manca di riflessione, tutto il contrario.
“Siamo animali sociali fatti per la contemplazione. Ho per indole i ritmi del letargo e nei mesi invernali rallento, affino il pensiero in attesa del disgelo. Ci va uno spazio in cui si è a contatto col mondo, ma si deve necessariamente decelerare per pensare, perchè siamo animali ad assimilazione lenta”.
Quello che ritroviamo sulle pagine è l’elaborazione di pensieri sedimentati, la ricerca di esprimere in modo semplice concetti più complessi e frutto di elaborazioni (La semplicità, rifletteva, è la cosa più moderna che si possa desiderare. Forse pure la più complessa).
Così, i suoi romanzi non solo ci portano nelle sue montagne, ma sono capaci di parlare a tutti perché quello che fa è indagare i sentimenti, riuscendo a toccare corde profonde.
Lei stessa dice di aver capito che il fatto di essere figlia di un minatore non le sarebbe bastato per scrivere Pietra dolce. Avrebbe dovuto imparare a minare, somigliare un pochino a quegli uomini che, come il padre, hanno sondato le viscere della loro terra. Certo, non per scavare nella pancia rocciosa della montagna, ma nella roccia della miniera che siamo. Perché ognuno di noi è miniera e letteratura.
«Mi hanno chiamato Lisse, ma un nome non basta alla vita di un uomo. Non basta a salvarlo. A riassumerlo». -tosse- «Non basta a contenerlo. Così come non basta morire, per estinguere le parole, la letteratura che siamo stati e saremo».
Leria ha sempre trovato nell’espressione artistica e nella creatività il suo sfiatatoio, anche per soddisfare una sua esigenza di creare una risposta gentile alle sofferenze che stiamo vivendo.
“Empatia, bellezza, sensibilità, sono istintivi in noi, ma vanno accuditi. Per indole siamo portati a trovarci nell’altro: compagnia è una parola fondamentale. Etimologicamente significa dividere il pane. Sta a significare che quando due persone si fanno compagnia, si condivide pienamente l’altro, gli si cede buona vita. Ma c’è un altro concetto che mi è caro: prossimità.
La compagnia necessita di vicinanza fisica, mentre la prossimità no: è radicale”.
Di nuovo il concetto di accoglienza diventa fondamentale e si contrappone a quello di paura. La paura è uno scudo mortifero alle libertà.
Quando si ha bisogno di libertà, la libertà è nell’altro: non vale singola.
Fedele a questo concetto, ci dice che “Dobbiamo affidarci alle persone che sanno leggerci più lontano”.
Questo è quello che è successo a lei prima che iniziasse a scrivere L’equilibrio delle lucciole.
Nell’estate del 2018 ha ricevuto la visita della direttrice editoriale di Salani, Mariagrazia Mazzitelli, che aveva letto alcune sue poesie.
“È salita a Massello, è rimasta il tempo di raccontarsi e poi mi ha detto che avrei dovuto scrivere la casa che portavo dentro. Ero titubante. Fino a quel momento avevo tradotto emozioni in canzoni, poesie, disegni: le mie riflessioni le esprimevo in fiotti, per urgenza. Mariagrazia è venuta a consegnarmi un coraggio e una strada nuove. Mi sono spogliata delle paure, e ho imparato una libertà inedita. Le sono grata per aver creduto in me”.
*In corsivo le citazioni da Pietra dolce