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Il Rifugio Quintino Sella al Monviso, un binomio indissolubile

di Federica Boggio

"Io penso che essere un montanaro sia una cosa estremamente bella, estremamente ricca, per me la montagna è una passione di vita".

Così Alessandro Tranchero, il gestore del rifugio Quintino Sella al Lago Grande di Viso. Rifugio che conosce bene, la sua famiglia ha in gestione la struttura da 48 anni e lui ha fatto lì la sua prima stagione quando ne aveva solo 4.

Oggi il Quintino Sella è uno dei più frequentati rifugi della Valle Po e la sua storia, ormai ultracentenaria, è legata a filo doppio con la storia del Re di Pietra e dello stesso CAI.

Quintino Sella, infatti, fondò il CAI proprio sull’onda dell’entusiasmo della prima salita in vetta al Monviso avvenuta ad opera di una spedizione italiana cui lui prese parte.

Questo avveniva nel 1863.

Non molti anni dopo, nel 1881, venne fondato il rifugio della Fontana di Sacripante, rinnovato nel 1886 e dedicato al fondatore del CAI.

Il rifugio che oggi conosciamo, il Quintino Sella al Lago Grande di Viso, venne inaugurato poco lontano il 23 luglio del 1905.

Con 118 anni di vita, si può dire che il rifugio è un pezzo di storia del CAI, ma anche delle nostre montagne: ne ha accompagnato difficoltà e cambiamenti.

Non per niente per i festeggiamenti dei 160 anni del CAI è stata allestita una mostra a Pian del Re e il Tour della Fiaccola CAI 160, organizzato dal CAI di Torino, ha portato la fiaccola proprio a questo rifugio in una delle sue tappe.

Ma per via dei cambiamenti climatici, del ricambio nella frequentazione della montagna, dell’evoluzione tecnologica, i rifugi stanno attraversando una fase di forte trasformazione.

Ne abbiamo parlato con l’attuale gestore Alessandro Tranchero.

 

Il rifugio Sella ha da poco compiuto 118 anni, come si può dire che sia cambiata la vita di un rifugio? 

La mia famiglia gestisce questo rifugio da 48 anni e si può dire che il cambiamento è stato profondo.
Questo rifugio era stato pensato e progettato come una base di appoggio alpinistica, ma anche come sede per studi scientifici.

Quando i miei genitori ne hanno preso la gestione negli anni ’70 la maggior parte dei frequentatori erano alpinisti, mentre oggi la percentuale preponderante dei frequentatori del rifugio sono escursionisti: si può dire che il trend si è invertito. 

Questo non vuol dire che si faccia meno alpinismo, anzi l’attività alpinistica è aumentata molto. Però l’alpinismo di oggi, l’alpinismo che vive entro un certo raggio dal Monviso, non ha più bisogno dei rifugi come posto tappa perché l’alpinista medio fa attività tutto l’anno ed è allenato a sufficienza per potersi programmare la gita in giornata, cosa che una volta non pensava nessuno.

Gli alpinisti che continuano a frequentare il rifugio sono soprattutto quelli che arrivano da lontano e che quindi hanno bisogno di un appoggio.

 

Cosa si aspetta oggi chi frequenta il rifugio? Come sono cambiate le richieste e le aspettative? 

La vita è per tutti una evoluzione, sempre e comunque, e da questo punto di vista non può non esserlo anche la vita in un rifugio.

Il rifugio è, prima di ogni altra cosa, un presidio del territorio. Non è un posto in cui posso dire “no guarda siamo pieni”, “no guarda non puoi entrare”... perché non c’è un collega di fianco cui rivolgersi, ci siamo solo noi.

La caratteristica che differenzia un rifugio da un albergo è nella volontà di mantenere un’identità precisa di quello che si fa e di come lo si fa. All’estero si usa la parola capanna, ma e me piace molto la parola rifugio, perché racchiude molte delle caratteristiche che sono proprie della nostra attività e non di quella un albergatore o ristoratore.

Qualsiasi rifugio non è quello che era 50 anni fa, come servizio, come qualità della cucina, come qualità dell’accoglienza, come livello di qualità del sonno. I rifugi sono tutti cambiati, sono tutti evoluti.

In rifugio oggi si mangia meglio che 40 anni fa, in qualsiasi rifugio, ma perché ci sono più possibilità, per esempio si è passati dal solo cibo a lunga conservazione alla possibilità di dare anche cibo fresco perché ora c’è la possibilità di conservarlo meglio.

A proposito della possibilità di conservare meglio il cibo, come funzionano gli approvvigionamenti di un rifugio, soprattutto dell’energia elettrica? 

Ogni rifugio ha le sue peculiarità che dipendono dal luogo in cui si trova e dalle risorse che lo circondano.
Per quanto ci riguarda il grosso salto è stato fatto grazie alla disponibilità di energia arrivata con la costruzione della centrale idroelettrica del rifugio.

Questo ci ha messi in difficoltà con la siccità nel 2021 e nel 2022. In particolare nel 2021 ci ha causato una crisi nella disponibilità di energia elettrica che ci ha costretto a chiudere perché non eravamo in grado, per esempio, di tenere accesi i frigoriferi.

Anche lì ci siamo evoluti, abbiamo imparato: prima ragionavamo con una disponibilità di una risorsa importante come l’energia elettrica, e poi abbiamo imparato a fare i conti con una certa scarsità di questa risorsa.

Con i cambiamenti climatici la montagna sta subendo diverse frane. Come vede il futuro del Monviso?

Il Monviso è sempre stato molto franoso. L’aumento delle temperature, la riduzione del permafrost e la riduzione drammatica della superficie dei ghiacciai sono stati i fattori che hanno peggiorato la situazione frane, ma nessun vero frequentatore del Monviso può dire di non aver mai visto frane sul Monviso. 

Adesso la situazione è peggiorata, siamo consapevoli del problema, ma il problema è sempre e soltanto uno, così per le frane come per la siccità: il cambiamento climatico.

Sicuramente noi che viviamo in alta montagna abbiamo un punto di vista più vicino che ci permette di essere più consapevoli di quello che sta succedendo.

Quando abbiamo dovuto chiudere per la siccità, il problema non era “il Quintino Sella chiude perché manca l’acqua”, ma il problema era (ed è) che mancava l’acqua.

A livello mediatico ho visto poca capacità di sfruttare la notizia che i rifugi erano in crisi per dare rilevanza e attenzione al problema vero. 

A mio parere si è persa un’occasione.

Con la pandemia molte persone si sono avvicinate alla montagna. Questo come ha influenzato il vostro lavoro?

In concomitanza della pandemia c’è stato un forte cambiamento negli escursionisti di montagna.

Prima si era abituati a fare altro, poi improvvisamente, avendo limitazioni nel muoversi e anche delle preoccupazioni nel confrontarsi con certi modelli del turismo di massa, improvvisamente la gente ha scoperto che poteva anche andare in montagna e la cosa interessante è che una buona fetta di questa gente ha mantenuto l’abitudine di inserire la montagna nel proprio orizzonte anche con il finire delle restrizioni.

Quindi ha ricominciato a fare altro ma ha continuato ad andare in montagna e ha scoperto che fare una gita appoggiandosi a un rifugio è una maniera piacevole e soddisfacente di passare una giornata.

Purtroppo però questa nuova affluenza ha anche un rovescio della medaglia.

Io sono anche un membro del Soccorso Alpino e sono vice delegato della mia zona. Mi preoccupa molto una certa superficialità con cui le persone si avvicinano a un ambiente potenzialmente ostile come quello dell’alta montagna.

Mi colpisce l’approccio di chi pensa che tutto il mondo sia antropizzato e non si rende conto che per fortuna una bella fetta di mondo ancora non lo è (e spero che rimanga tale). 

Esistono ambienti in cui non tutto è fatto ad uso e consumo dell’uomo, ma è l’uomo che deve adattarsi a vivere secondo le regole di quell’ambiente.

Chi va con le scarpe da ginnastica su un ghiacciaio o va sopra i 2500 metri senza pensare di mettersi una giacca e un berretto nello zaino, prima di tutto mi fa pensare che sia una persona che non ha mai dovuto confrontarsi con un ambiente che non è stato adattato a lei.

Ma è responsabilità di chi sa e conosce la montagna che, di fronte a questa nuova situazione, deve attivarsi per essere in grado di comunicare le informazioni necessarie per affrontare un ambiente potenzialmente ostile.
Anche noi siamo responsabili di questa attività di informazione e ci siamo chiesti come potevamo fare per migliore la nostra comunicazione.

Per esempio, abbiamo provato a cambiare il modo in cui comunichiamo le informazioni ai nostri ospiti. Abbiamo rifatto il nostro sito internet, poiché ritenevamo che andasse bene per persone che erano già abituate ad andare in montagna, mentre che non fosse facilmente fruibile per chi la montagna doveva ancora imparare a conoscerla.


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