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A Gian Piero

di Enrico Camanni

Oggi, 22 giugno 2023, si celebra il 40esimo anniversario dalla scomparsa di uno dei più grandi alpinisti e scrittori italiani, Gian Piero Motti.
Il CAI Torino ha deciso di rendergli omaggio attraverso le parole e le memorie del suo caro amico Enrico Camanni, da cui traspare il ritratto non solo dell'alpinista appassionato e innamorato della montagna che noi tutti conosciamo, ma anche di un uomo caparbio, ribelle, avanguardista e inaspettatamente fragile. 
La nostra speranza è che questo articolo possa mantenere vivi i ricordi delle grandi imprese di Gian Piero Motti nella mente di chi l'ha conosciuto e dei grandi appassionati di montagna, ma che possa anche ispirare le nuove generazioni ad essere resilienti e ad inseguire i propri sogni e le proprie passioni con la sua stessa forza, la sua stessa intensità e il suo stesso coraggio, al di là di ogni ostacolo.
Buona lettura!

Nei primi anni Settanta, tra Torino e la Valle dell’Orco, cresce un movimento di trasgressione che alle piazze preferisce le montagne. I contestatori sono guidati da Gian Piero Motti, scalatore colto e geniale, accademico del CAI, istruttore di alpinismo, primo salitore solitario del pilier Gervasutti al Mont Blanc du Tacul, un ragazzo assai sensibile ai venti di rinnovamento che soffiano dalla Francia e dall’America. I nuovi arrampicatori vogliono scrollarsi di dosso l’alpinismo eroico ancora ben radicato nella tradizione piemontese: per esempio il rito della vetta, e con esso il bagaglio di croci e di morti legato alla simbologia sacrificale dell’ascensione; oppure l’immagine dell’alpinista duro e invincibile, che spesso nella vita urbana e quotidiana si rivela irrealizzato e insicuro.

«Ho conosciuto molti ragazzi e molti uomini – scrive Motti in un forte articolo del 1972: I falliti – che avevano trovato nell’alpinismo il compenso al loro fallimento nella vita di ogni giorno. Uomini che avevano dato e che danno caparbiamente tutto se stessi alla montagna, con l’illusione di trovare un’affermazione che li ripaghi di tutte le frustrazioni, le delusioni e le amarezze della vita».

I ribelli cercano in parete il loro altrove, che è una verità complementare ma non conflittuale all’esperienza urbana. Rifiutano i vecchi pantaloni alla zuava e gli abiti grigi della festa e provano a sostituirvi vestiti colorati, orari rilassati, scanzonati bivacchi sugli altipiani, iniziazioni dai nomi simbolici: Itaca nel sole, Il cammino dei Comanches, la via della Rivoluzione, la via Cannabis. Ispirati dal mito dell’arrampicata californiana, individuano splendide pareti di gneiss a pochi minuti dalla strada della Valle dell’Orco e volando di fantasia le chiamano Caporal e Sergent, in risposta al leggendario Capitan della Yosemite Valley.

Gian Piero Motti è determinante nel processo di scoperta, non tanto perché scrive sulla Rivista della Montagna il famoso articolo Il nuovo mattino (1974), ricavando dall’alpinismo californiano e dalla mitica via di Harding e Caldwell The wall of the early morning light (El Capitan, Yosemite, 1970) una sorta di legittimazione domestica per rompere con il passato, quanto perché dà voce, forma e dignità letteraria a un fenomeno che forse, diversamente, si sarebbe risolto in qualche scappatella psichedelica e in una gran bevuta collettiva.

Testimonia Andrea Gobetti, il nipote di Piero:

«Quando guidato dal mio amico Roberto Bonelli passai dalle grotte alle pareti era il 1974 e lì trovai in piena fioritura un’acuta analisi sul perché si va in montagna, su come goderne anziché soffrirne. L’inutilità dei monti era ancora rispettata come il loro tesoro più grande. Era un mondo emozionante in cui potevi migliorare la tua vita reale e spirituale riflettendo e risolvendo problemi di pietra…».

Il Nuovo Mattino dura il tempo di un sogno. Si conclude con la morte di Danilo Galante e la salita di Itaca nel sole nella primavera del 1975, quando le più belle pareti della Valle dell’Orco sono esplorate e Motti sente che la trasgressione è compiuta: insistere equivarrebbe a istituzionalizzare i nuovi principi, rinchiudendo l’esperienza in un vicolo chiuso. In seguito, Motti è per breve tempo direttore della Rivista della Montagna, prima di dedicarsi totalmente alla scrittura della monumentale Storia dell’Alpinismo, che esce a dispense per De Agostini nel 1977.

Ogni volta che salgo a Ceresole Reale penso a Gian Piero che mi descriveva i tornanti della Valle come una via iniziatica: i massi tagliati dai ciclopi, le pareti argentate, l’oro dei larici in autunno, il rombo del torrente Orco. Adesso non si vede più niente, perché la carrozzabile s’infila nella galleria sopra Noasca e scompare sotto gli appicchi del Caporal. Anche alcune memorie storiche come il masso Kosterlitz sono state sacrificate ai lavori stradali. Il mito è stato imbrigliato.

La prima volta che Gian Piero ed io ci siamo incontrati alla Rivista della Montagna mi sono fatto coraggio e gli ho confidato che volevo andare allo spigolo della Torre di Aimonin. Allora lui ha preso un foglietto di carta stropicciata, ha schizzato la silhouette della parete con una punta di matita e in cima allo spigolo, più che disegnare, ha inciso una fessura con uno dei suoi gesti carismatici: «Ecco, qui fai conto che un dio abbia tirato un colpo di spada».

Per me e Roberto Mantovani, redattori bambini alla Rivista della montagna, le sue parole avevano il suono della nuova frontiera. Lui era il capo indiano che cavalcava davanti al mucchio, l’apripista, il capocordata. L’atteggiamento del guru attraeva e allontanava. Certe volte ci faceva toccare il cielo con il pensiero, altre volte aveva la pesantezza dell’uomo inquieto, lacerato, psicologicamente fuori misura, anche se conservava sempre la lucidità delle menti superiori.

Amava Cesare Pavese e gli assomigliava. Lo citava sempre. Come Pavese era segnato da un’incolmabile nostalgia: «Quassù la legge non arriva, Nefele. Qui la legge è il nevaio, la bufera, la tenebra. E quando viene il giorno chiaro e tu ti accosti leggera rupe, è troppo bello per pensarci ancora…». Per Gian Piero la montagna e la parete sono sempre state metafore di assoluto. Lui guardava la roccia e vedeva oltre, riconosceva la luce di un altro mondo, libero dal dolore e dall’angoscia, dove non si provano né freddo né paura. «Anche il freddo – diceva – è sintomo di cattivo spirito. Quando non sentirò più freddo tornerò a fare le scalate invernali».

E invece il freddo non l’ha più lasciato, nemmeno la mattina che è venuto a salutarci alla Rivista della Montagna nel giugno del 1983, ed era così sereno che nessuno di noi ha capito.

Invece Gian Piero aveva già programmato la data e il luogo in cui morire, nelle sue valli di Lanzo. Il posto lo conosceva fin da bambino: aperto e solitario. Quanto al giorno aveva scelto il solstizio d’estate, quando il sole sale più in alto sulla cresta del Bellavarda e la notte è più dolce e breve.

Enrico Camanni


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