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Il libro ritrovato - Alphonse Daudet

di Gianluigi Montresor

ALPHONSE DAUDET – TARTARIN SUR LES ALPES – CALMAN-LÉVY – Parigi 1885
ALPHONSE DAUDET – TARTARINO SULLE ALPI – VIVALDA – Torino 2007

Tra i grandi classici della letteratura di montagna non può certo mancare questo gioiellino che Alphonse Daudet, scrittore e giornalista, pubblicò con le edizioni del Figaro, per cui scriveva, alla fine del secolo scorso. In realtà questo titolo faceva parte di una trilogia, dedicata al suo eroe, Tartarino di Tarascona, ma certamente questo è dei tre il titolo più famoso e giustamente celebrato.

Il libro, fin dal suo apparire, ebbe subito un grande successo, a cui contribuirono molti fattori, tra cui principalmente lo stile satirico dell’autore, talora benevolo ma spesso molto caustico, nei confronti della moda imperante delle vacanze in alta montagna, soprattutto da parte di persone che nulla avevano a che fare col mondo dell’alpinismo. E quindi una presa in giro feroce del bel mondo dei grandi hotel svizzeri, pieni di personaggi improbabili, nobili spiantati, borghesi arricchiti, esuli russi in odore di terrorismo, tenere fanciulle apparentemente indifese ma feroci come belve, artisti estrosi (tra cui un sedicente tenore italiano, personaggio chiave della storia), e sullo sfondo il mondo alpino delle guide, dei portatori, della servitù al seguito dei signori.

Alla prima edizione ne seguirono molte altre in Francia, ma il libro si diffuse velocemente in tutta Europa. La prima edizione italiana uscì due anni dopo, come strenna del Corriere della Sera, seguita da numerosissime edizioni successive. Quella da noi adottata si deve addirittura alla penna di Aldo Palazzeschi (nel 1932) ed è stata ripresa e pubblicata nel 2007 dall’editore Vivalda nella collana dei Licheni (n. 85), con postfazione di Pietro Crivellaro.

Sono ben 11 le edizioni dell’opera presenti nella Biblioteca Nazionale del CAI. Dell’edizione originale del 1885 due copie stanno a Torino ed una nella biblioteca sezionale del CAI di Firenze.

All’edizione Vivalda si rimanda per una descrizione molto ampia, documentata e circostanziata del milieu culturale nel quale il libro si collocò. Pietro Crivellaro da par suo ha curato un’edizione critica completa e ricca di molti spunti sia di tipo sociologico sia di tipo alpinistico.

Noi ci limiteremo a qualche breve commento a qualche brano, tratto da questa edizione, per dare conto dello stile brillante e ricco di argot, spesso con espressioni semidialettali di fatto intraducibili, ma a cui si deve probabilmente buona parte dello strepitoso successo del libro.

Tarascona è una piccola cittadina della Valle del Rodano, equidistante da Avignone, Arles e Nîmes e a pochi chilometri dalla Camargue. Dunque un paese tipicamente mediterraneo, dalle estati assolate e lontano dalle montagne. Ma è proprio da qui, un territorio della profonda provincia del sud della Francia, che Daudet conosceva molto bene, che prende le mosse questo straordinario personaggio, che può vantarsi di essere il PCA (Président du Club Alpin) della sua città. Carica che ricopre con grande orgoglio ma messa in pericolo dalla concorrenza del perfido rivale Costecalde.

Ed è proprio per scongiurare questa minaccia che il nostro eroe decide di affrontare i pericoli delle Alpi, onde dimostrare ai concittadini il proprio valore, scalando prima la Jungfrau e successivamente, dopo numerose avventure, il Monte Bianco, dove si svolge (partendo da Chamonix) la tragicommedia finale.

Le gustosissime immagini degli illustratore Aranda, De Beaumont e altri ci mostrano il nostro eroe nelle varie tappe della sua avventura, a cominciare dal comico arrivo all’hotel Righi Kulm, armato di ogni attrezzatura alpinistica, tra lo stupore degli ignari ospiti dell’albergo.

Si fermò un istante guardando l’albergo e le sue vicinanze, meravigliato di trovare, a duemila metri sul livello del mare, una costruzione di quel genere con magnifiche gallerie a vetri e porticati, sette piani di finestre e l’imponente scalone fiancheggiato da due file di lampadari che facevano rassomigliare quella cima alpestre alla piazza dell’Opera in un crepuscolo invernale.

Ma per quanto stupito egli fosse, non lo poteva mai essere quanto lo erano quelli che l’osservavano e non appena egli fu entrato nell’immenso salone d’ingresso, i curiosi si assieparono a tutte le porte con la stecca del biliardo nella mano o il giornale spiegato, e le signore con un libro o il lavoro di maglia o di ricamo; e si vedevano teste affacciarsi lungo la ringhiera delle scale e fra le grate dell’ascensore.
L’uomo disse con la sua voce aperta e risonante da meridionale puro sangue: “Boia di un mondo, che bel tempino!”. E si fermò togliendosi gli occhiali e il passamontagna.
Non ne poteva più.
Lo sfolgorio delle luce, il calore del gas e dei caloriferi in contrasto col freddo esterno atroce, quell’arredamento lussuoso, gli alti soffitti, i portieri e grooms
(stallieri ndr) gallonati col “Regina Montium” scritto a lettere d’oro sui berretti da colonnello, lo sparato e le cravatte bianche dei camerieri, e uno sciame di svizzerine in costume nazionale accorse a un suono di campanello: tutte queste cose lo lasciarono sbigottito per un istante, ma non oltre.
Si sentì ammirato, e ritrovò ben presto la propria sicurezza come un attore dinanzi a un platea affollata.

Il signore desidera?”
Era il direttore dell’albergo che lo interrogava un po’ a denti stretti; un direttore elegantissimo, con giacca attillata, baffi lucenti e morbidi, e una testa da sarto per signore.

Il viaggiatore, senza punto scomporsi, disse al direttore: “Per il momento, mio caro, una buona cameretta”, con tanta affidabilità come con un vecchio compagno di scuola che si rivede dopo molto tempo.
Fu invece sul punto di andare su tutte le furie allorchè una cameriera bernese, infiocchettata e compunta gli chiese se non desiderasse servirsi dell’ascensore. La proposta di assassinare qualcuno non lo avrebbe indignato altrettanto.

Un ascensore? un ascensore a me?”. E così gridando e divincolandosi sbatacchiava tutta la sua ferramenta.
Ma calmatosi, poco dopo disse alla svizzeretta con un tono grazioso: “Pedibusse cum gambisse calcantibusse, mia bella pollastrina”, e salì dietro di quella riempiendo le scale con la sua persona e il suo bagaglio, e costringendo gli altri a farsi da parte, mentre per l’intero albergo correva la voce: “Cosa c’è ? Chi è stato ? Ma chi è ?”, borbottato in tutte le lingue delle suddette parti di questa nostra madre Terra.

Inizia da qui una serie di avventure ed incontri, che ci mostrano il carattere esuberante di Tartarino che riesce perfino a coinvolgere in un ballo scatenato l’ambiente “mortuario” dell’hotel, a fare amicizia con un gruppetto di giovani russi (che si dimostreranno poi degli anarchici dinamitardi), a cadere inebetito dalla bellezza della russa Sonia, che tenta invano di sedurre, a programmare escursioni palesemente superiori alle sue capacità.

Come dice Daudet: “Se Tarascona sintetizza il Mezzogiorno, Tartarino sintetizza Tarascona. Egli non ne è soltanto il primo cittadino, ma ne è l’anima, il pensiero, il genio tutelare, e ne possiede al completo tutte le belle qualità e insieme tutte le magagne”.

In un rapido flashback, l’autore ci racconta come nasce questo folle progetto nella mente di Tartarino, i suoi preparativi in tutta segretezza, la scomparsa dal paese natale, fra lo sconcerto dei concittadini. Veniamo anche a sapere che la vantata competenza alpina del PCA è in realtà una fanfaronata, che peraltro ha in comune con un altro personaggio chiave del racconto, la “guida” Bompard, con cui fa a gara a chi le spara più grosse. In particolare, le battute di caccia dei due erano la fonte delle più incredibili smargiassate, divenute proverbiali a Tarascona.

E’ proprio il suo conterraneo Bompard, che Tartarino casualmente incontra mentre costui conduce da cicerone frotte di ignari turisti spacciandosi per una guida, che l’amico fanfarone gli propina una rivelazione sconvolgente…

La Svizzera, mio ottimo Tartarino, non è altro che un gran Casino, aperto da giugno a settembre; un Casino di panorami al quale si viene per distrazione dalle cinque parti del mondo, e sfruttato da una Compagnia internazionale ricchissima per centinaia e centinaia di milioni e che ha la sua sede a Ginevra e a Londra. Ce ne vogliono dei baiocchi, pensate un poco, per affittare, dipingere e infiocchettare tutto questo po’ po’ di territorio: laghi, foreste, montagne e cascate; mantenere una popolazione d’impiegati e commedianti, e costruire sulle cime più alte degli alberghi stupefacenti muniti di gas, telegrafo e telefono (…). Inoltratevi nei paesi e non troverete un cantuccino solo che non sia artefatto, che non sia tutto un meccanismo come il palcoscenico di un teatro d’opera. Cascate illuminate a giorno, porte girevoli all’ingresso dei ghiacciai, e per le ascensioni delle ottime ferrovie idrauliche o funicolari. Ciò nonostante la Compagnia, conoscitrice profonda della propria clientela, mantiene, a uso degli escursionisti inglesi e americani in cerca di grandi emozioni, alcune delle vette più famose, la Jungfrau, il Mönch, il Finsteraarhorn, la loro apparenza pericolosa e terribile, benchè in realtà non vi sia lassù maggior rischio che altrove”.
Però i crepacci… amico mio, quei maledetti crepacci. Se uno vi casca dentro, buonasera!”
Cadete sulla neve, mio caro Tartarino, e non vi torcete un capello, c’è sempre in fondo un portiere, un groom, qualcheduno lì apposta pronto a sollevarvi; egli vi ripulisce ben bene, vi rimette in ordine, e vi chiede poi gentilmente: “Il signore è senza bagaglio?”.
Ma che diavolo mi venite voi contando, Gonzaga (altro nome di Bompard ndr)” ?
E Bompard, divenendo sempre più grave: “La manutenzione dei crepacci è una delle spese più forti per la Compagnia”.

Oltre a questa incredibile rivelazione, Bompard racconta a Tartarino anche la vera storia di Sonia e dei suoi compagni anarchici, riparatisi in Svizzera dopo un fallito attentato allo Zar, e tenuti d’occhio dalla polizia locale e da un nugulo di spie al soldo del sovrano delle Russie.

E’ a questo punto che Tartarino, confortato dalle parole di Bompard, parte alla volta di Interlaken deciso ad affrontare la salita della Jungfrau, convinto dell’inesistenza dei tanto temuti pericoli. Per diversi giorni tergiversa all’hotel del paese, rinviando ogni giorno le guide con qualche scusa, e facendo sempre la posta alla bella Sonia (che come tanti personaggi del romanzo gira di località in località, come una compagnia di giro), e dedicandosi alla caccia dei camosci. Finchè un giorno arrivano da Tarascona tre dei suoi soci, inviati segretamente dal farmacista amico di Tartarino, con la bandiera da issare sulla cima. A questo punto, Tartarino non può più esimersi e, prendendo il coraggio a due mani, parte per la conquista della Jungfrau con due guide locali.

Notazione importante. Daudet non era un alpinista né era un frequentatore abituale delle località montane. E tuttavia le descrizioni che ci propone, per esempio, del procedere di una cordata, dall’attraversamento dei crepacci, dei bivacchi sotto la tormenta, sono di una stupefacente verosimiglianza. Durante alcuni viaggi da lui compiuti in varie località della Svizzera e a Chamonix, aveva evidentemente assimilato con grande capacità la terminologia tecnica dell’alpinismo, appreso con dovizia di particolari l’uso delle attrezzature, compresi a fondo gli itinerari, le vie di salita, la nomenclatura geografica, da scrupoloso giornalista qual era.

Anche gli illustratori dimostrano una conoscenza assai accurata dei luoghi descritti (si veda ad esempio l’arrivo della carovana da Grindelwald alla Piccola Scheideck – sic nel testo originale)

Finalmente, lasciati i compagni che lo avevano scortato fin lì, Tartarino si trova solo con le sue guide Kaufmann e Inebnit nell’austera Hütte, in compagnia della gloriosa bandiera di Tarascona. Va a dormire… non prima di aver dato una strizzatina d’intesa alle sue guide, facendo capire di essere al corrente dell’imbroglio colossale ordito dalla Compagnia.

Data una strizzatina d’occhio intelligente alla guida dalla faccia sbalordita, il tarasconese, convinto più che tutto non fosse altro che una montatura per gli ingenui e una farsa per i furbi profittatori della situazione, si distese sul tavolaccio, rinvoltandosi bene nella sua coperta, si calò il passamontagna fin sugli occhi, e profondamente si addormentò malgrado la luce, i rumori, il fumo, il puzzo delle pipe e della zuppa colle cipolle: “Che commedia, che commedia! Anche i ciechi se la passeggiano sui ghiacciai! Che com…m…e…d…i…” (…).
Le due. Seguitando di buon passo sarebbero arrivati lassù per il mezzogiorno.
“Sotto” disse il P.C.A. lanciandosi arditamente come all’assalto; ma le guide lo trattennero, era bene legarsi prima per i passaggi pericolosi.

Ah! Legarsi!... E perché no ! Se questo vi fa piacere…leghiamoci pure…costa così poco…”. Cristiano Inebnit si pose in testa lasciando tre metri buoni di corda tra sé e Tartarino, che un’uguale distanza di corda separava dalla seconda guida carica di provviste e della bandiera.

La spedizione prosegue affrontando ostacoli sempre più aspri, che Tartarino supera brillantemente nella convinzione di essere immune da ogni pericolo, mentre le guide sono sempre più preoccupate del comportamento irresponsabile dell’eroe, che danza e salta cantando a squarciagola le canzoni provenzali.

Furono fermati quanto prima da un enorme crepaccio che un raggio del sole nascente illuminò rivelandone con un vapore dorato le pareti azzurre profondissime. Lo congiungeva un ponticello di neve così fine e fragile che non appena vi fu posto il piede si disfece precipitando in un vortice di polvere bianca, lasciando la prima guida e Tartarino sospesi alla corda che Rodolfo Kaufmann, puntando con tutta la propria resistenza da montanaro la piccozza nel ghiaccio, dovè sostenere da solo (…). Sul principio, sbalordito dal capitombolo, accecato dalla neve, Tartarino agitò gambe e braccia senza logica, come un burattino cui si sia guastato il sistema dei fili; quindi, raddrizzato dalla corda stessa, ciondolò sull’abisso col naso alla parete di ghiaccio che via via si fondeva davanti al suo alito, nella posizione di un trombaio appeso per raccordare le condutture di scarico dei tetti (…).
“Ma insomma, caro Kaufmann, ora basta, basta, abbiamo capito, abbiamo visto, bravo, bravo davvero, non vorrete mica lasciarci qui finchè non abbiamo fatto la muffa, ci sono delle correnti d’aria che vengono di sotto… eppoi questo accidente di corda ci sega i reni che è un vero piacere”.

Ignorando le lamentele di Tartarino, le guide riescono con grande fatica a togliersi da quell’impaccio, tracannano il cognac che il nostro eroe offre loro e si rimettono in cammino e si congratulano col francese:

Bravo… Bravo… franzose” disse Kaufmann picchiandogli sopra una spalla; e Tartarino col suo sorriso ironico: “Burlone! Burlone che non siete altro, lo sapevo che non c’era l’ombra di un pericolo”.

Pur tra mille fatiche la salita si conclude vittoriosamente, sventola la bandiera di Tarascona, salutata dalle detonazioni dalla valle davanti all’hotel, da parte dei suoi compari. Tartarino ritorna a valle acclamato come un eroe.

A questo punto non resta che tornare vincitore a Tarascona e con i compari si mette in viaggio. Ma ahimè il diavolo ci mette la coda. Mentre attraversa la Svizzera in treno, capitano due imprevisti. Il primo è l’arresto da parte della polizia svizzera, di tutto il gruppo, perché sospettato ingiustamente del tentato omicidio del famoso tenore italiano (in realtà una spia dello zar che Sonia e compagni avevano cercato di impiccare con la corda di Tartarino). Dopo una notte nella tetra prigione del castello di Chillon, vengono scagionati dallo stesso tenore e possono ripartire. Ma la seconda è ancora peggiore: giunge notizia che Costecalde, saputo della vittoria di Tartarino alla Jungfrau, è partito per Chamonix per batterlo sul tempo e salire il Monte Bianco.

A questo punto non resta al povero tarasconese che fare dietro front e recarsi immediatamente a Chamonix per precedere il rivale, seguito a malincuore dagli sfiniti compagni.

All’hotel Baltet di Chamonix scopre che fortunatamente Costecalde ancora non si è visto, ma in compenso trova l’amico Bompard (quello della falsa congiura svizzera della Compagnia), a cui propone di fare cordata comune verso il Monte Bianco.

Vale la pena leggere alcuni brani integrali dell’ultimo capitolo e dell’epilogo, degna conclusione di questo avventuroso personaggio e dove la penna di Daudet dà prova della sua assoluta padronanza sia della lingua letteraria sia delle tecniche alpinistiche dell’epoca.

La catastrofe. In una notte nera, senza luna, senza stelle, senza cielo, sul tremolante candore d’una china infinita di neve, una lunga coda si svolge lentamente, a cui sono attaccate in fila delle ombre piccolissime e timorose precedute a un centinaio di metri da una lanterna che rasenta il suolo producendovi una chiazza rossastra. Dei colpi di piccozza risuonano sulla neve dura, e il rumore dei blocchi distaccati che ruzzolano è il solo a disturbare il silenzio del nevaio sul quale si smorza ogni altro rumore della carovana. Di tanto in tanto un grido, un’imprecazione soffocata, la caduta di un corpo sul ghiaccio; e subito dopo una grossa voce risponde al fondo della corda: “Gonzaga, procurate di non cadere” (…).

Soffrire e tacere. Ecco il più mostruoso per un uomo di Tarascona. A un certo punto la carovana si ferma: si ode una discussione a bassa voce, dei bisbigliamenti animati: Tartarino si informa.
E’ il vostro compagno che non intende venire avanti” risponde lo svedese (un altro componente della cordata, ospite dell’hotel, dall’assurde velleità suicida ndr). L’ordine di marcia è interrotto, quel rosario umano si allenta, ritorna sui suoi passi, ed eccoli tutti sull’orlo di un crepaccio enorme: “una rottura” come la chiamano i montanari. I crepacci precedenti sono stati superati ponendovi una scala a traverso e percorrendola bocconi, ma questa volta il crepaccio è troppo largo e l’altra sponda è più alta di quindici o venti metri; bisogna calarsi nel fondo della rottura, che va restringendosi, e per mezzo di scalini scavati colla piccozza risalire dall’altra parte. Bompard si rifiuta decisamente di continuare l’esercizio (…).

Segue una lunga discussione tra Tartarino e Bompard per convincere l’amico a proseguire. Nel frattempo lo svedese inscena fantasie di un suicidio spettacolare nel crepaccio…

Coraggio, coraggio Gonzaga, sotto ! Coraggio!” E abbassando la voce cerca di risvegliarne il senso dell’onore sopito: invoca Tarascona, la bandiera, il Carosello, il Club delle Piccole Alpi…
Sì bravo, il Club… Me ne infischio bene io del vostro Club, io non appartengo al Club” risponde l’altro cinicamente. Allora Tartarino gli spiega pazientemente che dalle guide gli verranno posati i piedi uno per uno al loro posto, e che la cosa diverrà facilissima.
Per voi può darsi ma non per me”.
Per me ? O se mi dite di averci fatto l’abitudine oramai…”.
L’abitudine. Io ne ho molte di abitudini, ho quella di mangiare e di bere, di dormire e di fumare…”
E di mentire soprattutto” interruppe gravemente il PCA.
Di esagerare, se mai, di esagerare un pochino” rispose Bompard senza prendersela (…).

La situazione si fa vieppiù confusa. Passato faticosamente questo ostacolo, la marcia prosegue con altri guai assortiti, finchè le guide fanno presente che la nuvoletta che copre la cima del Bianco preannuncia una tormenta imminente e propongono di rinunciare. E’ a questo punto che lo svedese si rifiuta rimandando alla cima le sue mire suicide e tacciando le guide di vigliaccheria. Ma queste, risentite e punte nell’orgoglio professionale, decidono allora di continuare nonostante l’imminente sopraggiungere del maltempo.

E’ quindi con grande sollievo che sia Tartarino sia Bompard decidono invece di ridiscendere, staccandosi dalla carovana… Ma la tormenta arriva improvvisa, ed i due, arrivati nuovamente al grande crepaccio, non possono far altro che scavare una buca nella neve che è scesa copiosamente ed attendere un miglioramento. E’ in questa situazione estrema, mentre tuonano tutt’attorno le valanghe, che i due amici finalmente hanno un soprassalto di sincerità…

Perdonatemi Gonzaga, vogliate perdonarmi… Io vi ho strapazzato qualche volta, trattandovi da bugiardo…”.
E che cosa vuol dire, che cosa me ne importa ?”.
Io non ne avevo il diritto, io meno di ogni altro avevo il diritto di rivolgervi quel rimprovero, perché anch’io… anch’io durante la mia vita ho mentito molto, sì, purtroppo, ho mentito… spesso e in questa ora suprema sento il bisogno di aprirmi, di vuotarmi, di denunziare pubblicamente le mie menzogne”:
Delle menzogne, voi ? Che dite mai ?”.
Io…io… non ho mai ucciso dei leoni”.
Ciò non mi stupisce minimamente, e vi dirò di più, che voi non mi avete ingannato né punto né poco giacchè io non ci avevo mai creduto che voi aveste ucciso dei leoni” rispose Bompard tranquillissimo. “E’ necessario lamentarsi tanto per così poco ? E’ il nostro sole che ci porta a questo, si nasce con la bugia sulle labbra… Prendete esempio da me: io dacchè sono al mondo non ho detto la verità una volta soltanto. Non appena apro bocca, il sole del Mezzogiorno mi mette un certo pizzicore sulla lingua… non so che cosa sia…” (…)

Nel frattempo sopraggiunge qualche schiarita. I due decidono allora di continuare la discesa aggirando il famoso crepaccio con una lunga deviazione.

Mi raccomando Gonzaga, quello che abbiamo detto resti qui”.
Non ci siam visti”.
E pieni di nuovo ardore si ripongono in cammino, affondando fino al ginocchio nella neve caduta allora e che ha sepolto con la sua ovatta ogni traccia della carovana(…).

La tormenta riprende, la bussola impazzisce…

Vanno avanti con la sola speranza di poter scorgere la roccia oscura dei Grand Mulets nel bianco uniforme, silenzioso, in picchi, guglie e gobbe fresche fresche che li circondano accecandoli, e anche li spaventano non poco, potendo nascondere sotto i loro piedi i più terribili crepacci (…).
Camminano da più di due ore, allorchè nel bel mezzo di una cresta di neve, molto difficile da superare, Bompard esclama spaventato: “Tartarino, ma questa strada va in su”.

Eh, lo vedo bene anch’io che questa strada va in su” risponde il presidente sul punto di perdere la flemma.
Secondo la mia idea si dovrebbe andare in giù”
Lo so anch’io che dovrebbe andare in giù; e che cosa volete che ci faccia ? Chi sa che non discenda dall’altra parte”.
Infatti dall’altra parte la via discende, ma discende terribilmente, in un accavallamento di nevai e ghiacciai a picco, e proprio in fondo a quell’ammassamento di una bianchezza spaventosa sorge una capanna
(sono arrivati sulla cresta spartiacque del Dôme du Goûter, affacciandosi sul versante italiano ndr).
Prima di tutto, voi non mi abbandonerete, non è vero, Gonzaga ?”
E voi neppure, non è vero, Tartarino ?”
Si scambiarono questa suprema raccomandazione senza nemmeno potersi vedere, separati da una cresta dietro la quale Tartarino è scomparso avanzando: l’uno per salire e l’altro per discendere, con lentezza e terrore. Non si parlano neanche più, concentrando ogni loro superstite energia nella cura di evitare un passo falso e di non sdrucciolare.
D’un tratto, essendo giunta oramai a un metro dalla cresta, Bompard ode un grido terribile del suo compagno e al tempo stesso la corda dà uno strappone violentissimo, seguito da scosse violente e disordinate… Tenta di resistere e di puntellarsi per trattenere il suo compagno sull’orlo dell’abisso. Ma la corda, che è senza dubbio una corda molto vecchia, dopo qualche momento di quella tensione, si rompe: “Cacchio!”

Corpo!”
Questi due gridi si incrociano sinistramente, lacerando il silenzio e la solitudine; quindi una calma grandiosa, una calma di morte che nulla più riesce a turbare nella vastità delle nevi immacolate.

Verso sera, un uomo che somigliava vagamente a Bompard, un’ombra dai capelli ritti, sparuto, disfatto, fangoso e grondante, giunge all’albergo dei Grands Mulets dove gli viene subito operato un massaggio, quindi, riscaldato e nutrito, viene messo a letto prima che abbia potuto pronunziare altre parole che queste, intramezzate da lacrime e da pugni verso il cielo: “Tartarino… perduto… la corda… rotta…”, ma sufficienti per lasciar comprendere la grande sciagura accaduta (…).
Bompard, rimasto inebetito, non poteva fornire nessun indizio preciso né sul dramma né sulla località dove esso era avvenuto.
Solamente, al Dôme de Goûter fu rinvenuto un pezzo di corda rimasta in una frattura del ghiacciaio. Ma quella corda, cosa stranissima invero, era stata tagliata ad entrambi i suoi capi da una lama: tutti i giornali di Chambéry ne dettero una riproduzione.

Epilogo. Così si intitola l’ultimo capitolo, che vede uno strano personaggio percorrere stancamente le assolate e polverose strade della Provenza, entrare in Tarascona furtivamente, rasentando i muri, quasi a volersi nascondere. Chi è e come mai si comporta in questo modo ? Il lettore smaliziato ha già capito: si tratta proprio di Tartarino.

Per spiegare la sua presenza furtiva a Tarascona, sarà bene ritornare per un momento sul Monte Bianco, fino al Dôme de Goûter, al momento preciso quando i due amici si trovarono l’uno da una parte, l’altro dall’altra del suddetto Dôme, e Bompard sentì a un certo punto la corda tirare, e dimenarsi in fondo furiosamente il peso come di un corpo che vi fosse ciondoloni. In realtà la corda era rimasta fra due blocchi di ghiaccio, e Tarantino sentendo dalla sua parte il medesimo strappo e il medesimo tragico ciondolamento nel vuoto, credette anch’egli che il suo compagno fosse perduto e avesse finito col trascinarlo seco. Allora, in quel momento supremo… come potrei dire ?...non sono cose tanto facili a dirsi, mio buon Dio!... nell’angoscia della paura e dello smarrimento, tutti e due allo stesso tempo, dimentichi della santità del giuramento fatto all’Hotel Baltet, con un gesto sommamente istintivo tagliarono la corda, Bompard da una parte col proprio coltello, e Tartarino dall’altra con un colpo di piccozza. Subito dopo, inorriditi del proprio delitto, coscienti entrambi di avere sacrificato il compagno, si dettero a scappare in opposta direzione.

Quando lo spettro di Bompard giunse ai Grands Mulets quello di Tarantino giungeva all’osteria della Visaille (a metà della Val Veny, versante italiano ndr). Come ? Per quale miracolo ? Dopo quante capriole e sdruccioloni ? Chi lo sa ? Il Monte Bianco soltanto potrebbe dircelo (…).
Non appena gli fu possibile si fece trasportare a Coumayeur, che è la Chamonix italiana. All’albergo ove venne ricoverato per farlo rimettere un po’, non si parlava che di una grande catastrofe avvenuta sul Monte Bianco, sorella gemella di quella sul Cervino, illustrata dal Doré. Un altro alpinista inghiottito per la rottura della corda.

Convintissimo che si trattasse di Bompard, il povero Tartarino si sentiva divorare dal rimorso, non osava più raggiungere la delegazione né ritornare al proprio paese.
Leggeva già su tutte le labbra e negli occhi di tutti: “Caino, dov’è tuo fratello ?”. Ma la mancanza di denaro e di biancheria per potersi cambiare, e la fine di settembre oramai giunta vuotando tutti gli alberghi, lo decisero a mettersi in cammino. Infine… nessuno lo aveva veduto commettere il delitto… Chi gli impediva di inventare chi sa quale arzigogolo ? (…).

Il lieto fine è alle porte. Non prima di un’ennesima pantomima… Bompard, rientrato con la delegazione a Tarascona e narrata, secondo la sua versione, la tragedia vissuta, diventa il regista dell’estremo saluto all’amico Tartarino. Le esequie si svolgono nella Chiesa parrocchiale, tra lacrime e discorsi, la banda cittadina, tutti i negozi chiusi per il lutto del PCA. Ma è al Club delle Piccole Alpi che si svolge il saluto solenne, alla presenza delle autorità, del clero, dell’esercito, della nobiltà, dell’industria e del commercio.

Per più di trenta volte, o signori, ma che dico trenta, per più di novanta volte, o signori, ho esplorato l’abisso, senza poter arrivare dove era giunto il nostro sublime martire e infelice presidente, forse a quest’ora al centro della Terra sicuramente, e della cui caduta io potrei ben immaginare la traiettoria dai punti dove rinvenni questi frammenti”.
Così dicendo egli pose sul tappeto un pezzettino di mandibola, un dente, due bottoni e un pezzetto del panciotto, una fibbia delle bretelle, alcuni peli della barba (…).



Si aprì una piccola porta nel fondo del salone, il cui cigolare fece voltare gli astanti che videro apparire un uomo come un fantasma. Quell’uomo o quel fantasma era Tartarino, pallido e muto.
Guarda chi c’è… Tartarino!”
Guarda chi c’è… Gonzaga!” (…)
Andiamo dunque, presto, ragazzi!” disse Tartarino alleggerito e raggiante, posando la mano sulla spalla dell’uomo che credeva di aver ucciso (…)
Tutti ridevano, si stringevano la mano, si abbracciavano, si davano buffetti e pizzicotti, mentre la fanfara ancora all’oscuro di questo colpo di scena seguitava imperterrita la sua marcia funebre dolce e straziante in onore del PCA.

Con questa ennesima beffarda annotazione si chiude il romanzo di Alphonse Daudet. Personaggi caricaturali, certo, avventure paradossali e inverosimili, ma inserite in un contesto molto aderente alla realtà.

La falsità, la gelosia e la menzogna, oltre all’esibizionismo, all’alterigia e talora alla violenza, come connotati abituali tra personaggi che si muovono nell’ambiente immacolato delle vette, può urtare la nostra sensibilità e suscettibilità. Ma basta pensare a molte note vicende della storia dell’alpinismo per modificare questa impressione e ridimensionare i miti romantici.

A partire dalle falsità che accompagnarono la prima ascensione del Monte Bianco da parte di Jacques Balmat contro il dottor Paccard, all’affaire Bonatti/Desio/Compagnoni nella vicenda del K2, solo per citarne due celeberrime, non si può certo imputare al povero Tartarino la patente di slealtà e di ipocrisia.

La realtà storica di decine di esempi di fandonie, accettate come vere per decenni, ha dimostrato che il paradosso non sta nella fantasia di Daudet, ma nelle debolezze della natura umana tout court, che anche nelle terre alte albergano né più né meno come a livello del mare di Provenza.


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