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Caiano sarà lei!

di Carlo Crovella

Pubblicato anche sul "Gogna Blog" il 5/7/20

In genere, oggi, chi utilizza il termine "caiano" gli dà un tono negativo, in alcuni casi addirittura offensivo. Non è poi chiarissimo a tutti cosa si intenda di preciso. Dalle circostanze del suo utilizzo e dalle frasi in cui è inserito, si deduce che tale termine sintetizzi concetti da inquadrare in una visione stantia, obsoleta, autoreferenziale, pedante, noiosa. Una cosa vecchia e polverosa, insomma. Una cosa da buttare.

A me non piace il termine caiano, ma non per l’implicito disprezzo verso chi è diretto. Non mi piace per una semplice questione fonetica: si collega troppo al suono di cane, sembra l’aggettivo con il quale si definisce un latrato, e non mi va che si riferisca al CAI.

Quintino Sella

Non amo neppure il termine che si vorrebbe utilizzare come alternativa elegante, cioè "caìno", perché mi ricorda il fratello cattivo di Abele e anche in questo caso stona se collegato al CAI.

Perché io sono molto legato al CAI. Al CAI Torino, ovviamente, e poi anche all’altra sezione torinese, l’UGET, di cui fa parte storicamente mia moglie. Ma per estensione sono legato all’intero CAI, o meglio all’ideale del CAI.

Sono stato educato in un contesto familiare dove l’amore per le montagne e l’ideale del CAI erano fusi insieme, erano una cosa sola. Nelle passeggiate al Parco del Valentino, anche prima dei miei 5 anni, non era casuale passare davanti alla statua di Quintino Sella (restaurata nel 2019 e da allora posizionata nel cortile del Politecnico), statua che al tempo si trovava proprio davanti al Castello del Valentino, dove nel 1863 fu fondato il CAI: inevitabile il racconto paterno sull’ascensione al Monviso e sulla successiva fondazione del Club Alpino.

La fusione fra andar in montagna e coinvolgimento nel CAI fu tipica fin dall’origine del CAI stesso e lo è stato per moltissimo tempo. Da qualche decennio, invece, i concetti si sono separati profondamente. Oggi si va in montagna (o, meglio, si praticano attività sportive che rientrano nell’ampio alveo della montagna) e non si sente necessariamente il piacere di far parte del CAI. Chi si iscrive al CAI spesso lo fa solo per motivi spiccioli: sconti nei rifugi, coperture assicurative, conoscenza di altri individui (magari dell’anima gemella…).

Particolare della statua di Quintino Sella “cercatore di minerali”

Tutte esigenze assolutamente legittime, ma l’ideale del CAI è un’altra cosa. Di fatti c’è una profonda differenza fra essere semplicemente iscritti al CAI (pagando quota annua e appiccicando il bollino sulla tessera) e far davvero parte del CAI, condividendone gli ideali.

Non che il CAI sia privo di difetti: struttura elefantiaca, ministeriale, con tempi biblici, roccaforte del conservatorismo (sia tecnico che ideologico) e con zone d’ombra là dove, nel corso dei decenni, i giri di denaro sono inevitabilmente lievitati. Mi sono lucidamente chiari i difetti del CAI e da tempo sono impegnato in prima persona (anche con aspre prese di posizione) per correggerli e migliorarli, ma rivendico la bontà dell’ideale di fondo.

Ho già detto che nell’esperienza della mia famiglia praticare montagna e sentirsi parte del CAI (dell’ideale del CAI) erano indissolubili, anzi erano un solo concetto. Mio padre era sistematicamente impegnato per il CAI una o due sere a settimana (ovviamente in modo del tutto non retribuito, anzi non si pensava neppure di chiedere il rimborso dei costi vivi…): sedute del Consiglio, commissione rifugi, commissione eventi. A queste si aggiungevano incontri di varia natura, ispezione nei rifugi della Sezione, stesura di articoli, pareri, relazioni.

Mio padre mi iscrisse al CAI Torino nel 1969, quando avevo 8 anni: nel 2019 mi hanno quindi consegnato la medaglia per 50 anni consecutivi di appartenenza alla Sezione. Il merito dell’iscrizione originaria è indiscutibilmente di mio padre, ma a me può essere riconosciuto il merito di non aver mollato in tutto questo lungo periodo. Anche nel mio caso si tratta non di una semplice iscrizione burocratica, ma di un effettivo contribuito alla vita sociale.

Il Castello del Valentino, dove nel 1863 fu fondato il Club Alpino Italiano

Su questo punto, rispetto a mio padre, io ho seguito una strada un po’ diversa. Del coinvolgimento nel CAI mi ha sempre stuzzicato l’impegno didattico, sia estivo che invernale, per cui bazzico ormai da 40-45 anni in questo specifico mondo, avendo ricoperto anche ruoli di responsabilità organizzativa di Scuole prestigiose e con numeri consistenti.

Da qualche tempo, però, ho modificato un po’ il tiro della mia mission didattica: anziché limitarmi a ripetere aride nozioni tecniche (come impone oggi il modello dominante), ritengo più utile svolgere un ruolo “educativo” attraverso la stesura di articoli, l’organizzazione di conferenze e interventi vari, l’analisi storica, lo stimolo a riflettere. Il tutto finalizzato alla riproposizione dell’ideale educativo dell’andar in montagna. Educazione della persona (cioè dell’individuo come cittadino, genitore, lavoratore) attraverso la pratica dell’alpinismo.

Montagna scuola di vita è un mantra che mi son sentito ripetere fin dai miei primi anni e in effetti riconosco che la montagna ha profondamente forgiato la mia personalità anche al di fuori della montagna. Come vivo, come lavoro, come esercito il mio ruolo di genitore, marito e cittadino sono diretta conseguenza di cosa ho “imparato” andando in montagna.

Questo è il vero valore etico dell’andar in montagna. Di conseguenza mettere una mano davanti all’altra sulla roccia o un piede davanti all’altro sui sentieri sono solo dei momenti strumentali alla costruzione della personalità caratteriale ed esistenziale. Al contrario chi elegge l’attività sportiva come obiettivo principale (se non unico) del suo interesse per la montagna, perde la parte più di valore della montagna stessa. Chi riduce i monti a semplice “terreno” dove svolgere uno sport e basta, non vede tutta la ricchezza esistenziale che c’è oltre tale limitata concezione.

A ben vedere il mio interesse per l’impegno nella didattica trova origine nello stesso elemento fondativo del CAI: la conoscenza delle montagne. Infatti il CAI «ha per scopo l’alpinismo in ogni sua manifestazione, la conoscenza e lo studio delle montagne, specialmente di quelle italiane, e la difesa del loro ambiente naturale».

Io sono un gran innamorato delle montagne. Parlo proprio delle singole cime: ciascuna ha la sua individualità, la sua anima, il suo carattere. Ci sono montagne placide che avvolgono in un abbraccio materno. Altre capricciose, infide, rognose. Mi piace conoscerle tutte e di ciascuna conoscere i diversi versanti, le creste, la storia, chi ci è salito e anche chi non ha fatto ritorno.

Mi piace anche salirle, le montagne, ma questo è l’ultimo tassello, a volte neppure il più interessante. Interessanti però possono essere i momenti vissuti durante le ascensioni: la bollita alle mani, i bivacchi, il saper superare fame, sete, freddo e caldo, mantenere sempre il giusto equilibrio fra entusiasmo e lucidità (per dirla alla Rébuffat), affinare l’occhio e l’istinto per sapersi muoversi nel modo adeguato al terreno che si affronta (“leggere” la montagna, come sintetizzo io).

Guido Rey

Le tecniche? Sono solo elementi strumentali per raggiungere tali obiettivi. Al momento io sono quindi in dissonanza con l’impostazione dominante che vede l’insegnamento delle tecniche come “l’obiettivo” prioritario dell’attività didattica. No, caro allievo, io ti insegno anche come legarti, come fare sicura, come procedere con piccozza e ramponi…, ma il vero contenuto del passaggio fra me istruttore e te allievo è ben altro: come vestirsi, come e quando mangiare, dove procedere, come fare lo zaino… insomma, condividendo le esperienze gomito a gomito, ti sprono a creare in te una forma mentis “alpinistica”, cosa che ti servirà per tutto il resto della tua esistenza (lavoro, famiglia, correttezza sociale).

Dalla conoscenza delle montagne parte quindi il processo formativo della persona, processo che transita per l’attività didattica esperienziale. Non è una novità storica, questa mia convinzione. Il buon vecchio Quintino Sella, come ci racconta l’articolo allegato, aveva già lucidamente identificato l’importanza educativa dell’andar in montagna, senza necessariamente il bisogno di VI o VII grado, né di gare né di sciare in canali semi strapiombanti.

La montagna è scuola di vita e, stringi stringi, questo è il succo dell’ideale del CAI: è un ideale tutt’altro che obsoleto e polveroso, perché è sempre valido in assoluto. Proprio per questo va riproposto con vigore anche nell’attuale società edonistica e individualista.


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