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Il libro ritrovato: Guido Rey, il Monte Cervino

di Gianluigi Montresor

Guido Rey (1861 – 1935) è figura di primissimo piano, nel panorama dei grandi personaggi della storia della montagna e dell’alpinismo, nonché del CAI. Sua è la celebre frase che in anni passati era stampata su tutte le tessere del CAI: «Io credetti, e credo, la lotta coll'Alpe utile come il lavoro, nobile come un'arte, bella come una fede».

Alpinista di razza, a lui si devono diverse prime assolute nelle Alpi Occidentali; fu scrittore e fotografo molto apprezzato, premiato in esposizioni internazionali.

Nipote di Quintino Sella, fu amico e compagno di molti personaggi dell’alpinismo a cavallo del secolo XX, tra cui il cugino Alessandro suo compagno di cordata.

Ma la sua fama è principalmente legata al Monte Cervino, su cui salì 5 volte (con una prima assoluta per la cresta di Fürggen) e per il libro che viene qui presentato.

Il libro uscì in prima edizione stampato da Hoepli di Milano nel 1904; già nel 1905 uscirà l’edizione francese presso Hachette e nel 1907 in inglese (The Matterhorn – T. Fischer Unwin – Londra).

Si tratta di un volume di pregio oggi molto ricercato presso le Librerie Antiquarie, anche perché arricchito dall’introduzione di Edmondo De Amicis e da una cinquantina di incisioni originali dello scultore Edoardo Rubino (a cui si deve tra l’altro il faro della Vittoria al Colle della Maddalena a Torino). Sono 35 le sue tavole fuori testo e 15 i finissimi disegni nel testo. 

Completano questa opera anche diverse fotografie dello stesso Rey e del grande fotografo Vittorio Sella, ed un disegno di  Leonardo Bistolfi. Molti degli artisti citati facevano parte dell’Accademia Albertina e del Circolo degli Artisti di Torino.

Le successive edizioni del libro (tra cui una ristampa anastatica curata dalla stessa Hoepli nel 2015) furono numerose. La Biblioteca Nazionale del CAI ai Cappuccini conserva diversi esemplari in molteplici edizioni, tutti consultabili di persona oppure nel catalogo: caisidoc.cai.it/biblioteche-cai/Biblioteca-Nazionale. L’edizione del 1904 è presente con 2 copie nella Biblioteca Nazionale del CAI e nella Biblioteca della Sezione di Genova e in una copia in altre 6 sezioni di Bibliocai (biblioteche sezionali CAI).

Il Museo Nazionale della Montagna ha dedicato due mostre a Guido Rey, la prima nel 1982 (cahier n. 15), la seconda nel 1986 (cahier n. 46). Inoltre nel suo Centro di Documentazione sono conservate  molte delle lastre fotografiche originali.

L’altra sua opera famosa “Alpinismo acrobatico” (1914) racconta invece dell’alpinismo dolomitico a cui si avvicinò in anni successivi, mentre intratteneva stretti rapporti col mondo irredentista tridentino, con salde amicizie con Cesare Battisti, Nino Peterlongo (fondatore della SOSAT) e con la guida Tita Piaz (socialista fervente lontano dalle convinzioni politiche di Rey).

La sua figura fu criticata e discussa per l’adesione (almeno iniziale) al regime fascista, in cui vedeva un argine all’anarchia sociale.

Negli ultimi anni di vita si rinchiuse sempre più spesso nella sua casa al Breuil, scrivendo lettere ed anatemi contro le automobili e lo scempio che la strada della Valtournenche stava perpetrando nella conca del suo amato Cervino.

Qui di seguito, propongo qualche brano, tratto dal libro, dove la prosa di Guido Rey (spesso giudicata come retorica), in realtà mostra un’ottima qualità di scrittura, unita sia ad una grande conoscenza dell’ambiente alpino sia ad una sicura padronanza delle tecniche alpinistiche dell’epoca.

Più che di retorica credo sia più corretto parlare di un vero e proprio innamoramento.

 

La prima volta che vidi il Cervino

Ero alla mia prima salita alpina. Dalla vetta modesta d’un monte di duemila metri, nell’alba limpida d’un giorno d’estate, un uomo grande additava a me ed ai miei compagni una grande piramide azzurra, lontana. Nessuna nube offuscava l’orizzonte della vista dell’animo nostro.

“Quello è il Cervino” ci diceva, e un brivido di ammirazione invadeva le piccole menti alla vista della forma strana ed aguzza che si estolleva nell’estesa infinita dell’altre montagne.

L’uomo grande era Quintino Sella, ed era degno di additare quel monte e di suggerirne il fascino. Attorno a lui stavamo una decina di ragazzi, attoniti, intenti allo spettacolo nuovo del quale non potevamo allora comprendere tutta la bellezza (…).

Forse in quel momento, di fronte al lontano Cervino, in quelle prime ore felici della vita in cui si formano i propositi ingenui che guideranno il nostro avvenire, nasceva in me il primo germe dell’ideale che doveva occupare tanta e così onesta parte dell’animo mio e “che, come vedi, ancor non m’abbandona” (…).

 

La piccozza

Alessandro Sella, uno de’ compagni delle mie prime gite, mi aveva fatto l’onore di condurmi seco, promettendomi una salita con Jean Joseph Maquignaz. Non curavo di sapere quale salita fosse; mi bastava il pensiero che avrei camminato al fianco di un alpinista valente, dietro una guida famosa; mi sentivo accresciuto nella stima di me stesso.

Fino a quell’anno mi ero servito modestamente di un alpenstock, ma in quell’occasione credetti dignitoso mutarlo in una piccozza, come l’avevano i veri alpinisti (…).

Mi avevano dato un ordigno pesante, solido, un po’ squilibrato, con un certo becco troppo lungo, e con certe viti che facevano male alla mano che l’impugnava; non sapevo maneggiarlo, m’imbarazzava, ma era la mia prima piccozza, e la guardavo con orgoglio e la stringevo con tenerezza. Cogli anni, ciò che fu allora diletto puerile di un trastullo nuovo si trasformerà per noi in una specie di amicizia.

Troveremo nella piccozza qualcosa di più che un sostegno materiale: essa sarà associata ai nostri ricordi, la consuetudine legherà la sua modesta esistenza alla nostra; quando le scopriremo qualche debolezza, una fessura che si delinea sul legno altre volte bello e liscio, una scheggiatura del ferro che va perdendo la sua tempra, ci sarà penoso come quando vediamo la prima ruga accennarsi sulla nostra fronte, o il primo pelo bianco spuntare fra i nostri capelli.

 

Iter para tutum

A mezza via tra Valtournenche e il Giomein, là ove la valle si rinserra e sembra finire, sta, bianca e semplice, una chiesetta, poggiata sul macigno, all’orlo dell’orrido di Buserailles. Il viottolo serpeggia rapido su per le rupi, e le passa davanti prima d’inoltrarsi nella strettoia oscura, a picco sul burrone. E’ la sola via della valle: la via che conduce al Cervino.

Due montanari scendevano, e passando là innanzi, si scoprirono il capo devotamente. E’ la cappella della Nostra Signora della Guardia; là giunto, lessi scritto sovra la porta: Iter para tutum. Mi parve allora, come sempre di poi, che quel pio versetto fosse meravigliosamente appropriato a quel luogo (…).

Di fronte alla grandiosità dell’alta montagna l’uomo, non mai avvezzo ai terrori della vita primitiva, si ridesta ad una forma insolita di timore; ritrova una vaga traccia dell’istinto che gli è tramandato confusamente da’ suoi antichissimi padri quando lottavano inermi contro le forze indomite della natura.

E’ come il brivido che scorre nelle vene del fanciullo che si trova solo nella grande foresta piena di strani rumori, è un senso arcano della potenza infinita dell’ignoto che circonda la vita, il timor panicus degli antichi.

 

L’alpinismo

L’alpinismo è cosa umana, naturale, come è naturale il camminare, il guardare, il pensare; umana come tutte le passioni, con le sue debolezze, i suoi slanci, le sue gioie e i suoi disinganni e, come l’altre passioni, esalta e matura l’animo umano.

Vorrei saper ridurre a’ suoi veri termini il concetto de’ nostri ideali, che non sono diversi da quelli che spingono gli uomini verso le cose migliori e più alte della vita; dimostrare che gli alpinisti non sono nè più savi né più pazzi degli altri uomini; la sola differenza è che colà dove gli altri credono che sia la fine del mondo abitabile, essi trovano le porte di una maravigliosa regione, piena di visioni incantevoli, in cui le ore passano come minuti, i giorni sono lunghi e pieni come un anno; e che al di là di quelle porte essi non recano che la parte migliore di loro stessi, epperò quella vita loro appare più bella e più pura.

 

La cresta di Zmutt

(dopo una salita in vetta senza problemi per la cresta di Zmutt – non certo tra le più facili (!) – Rey, insieme alle sue guide deve decidere da che parte scendere – ndr)

Avevamo discusso brevemente se dovessimo calarci giù per la via svizzera o per quella d’Italia; di là è più facile, di qua è più vicino il rifugio, e poi siamo in casa nostra. Si decide per l’Italia (…).

Ho notato più volte che, quando il tempo si fa brutto in alta montagna, le guide diventano di pessimo umore; le stesse guide che fino a poco tempo fa sono state premurose e cortesi, che hanno scherzato con voi, e vi hanno usato un mondo di riguardi, si fanno ruvide e chiuse, talora quasi brutali. E’ il loro modo di farvi capire che le cose si fanno serie; non vi ha più luogo a cortesie quando si tratta della vita. Essi sanno che la sola salvezza è nella rapidità della fuga; guai a chi va lento, guai a chi discute e si lamenta.

In questi frangenti voi sentite che con maggior forza, quasi con violenza tirano la corda che vi unisce a loro, vi afferrano ruvidamente pel braccio o per la gamba, se, nella fretta, siete per fare un passo falso; osano rimproverarvi se non badate alla vostra corda che si è impigliata in una scheggia di rupe, e dirvi senza velo che camminate male. Si può essere certi che quando le guide arrivano a queste verità, non c’è tempo da perdere (…).

Era incominciata appena la disperata discesa. Scivolavo, strisciavo ora sul dorso, ora col volto contro la rupe; mi serravo contro alla montagna cercando di adattare ad essa il mio corpo; ora mi facevo leggero per non gravare su un sostegno incerto, ora mi lasciavo cadere con tutto il mio peso, quando, con la coda dell’occhio, scorgevo un luogo che accogliesse i miei piedi (…).

Ma quale alpinista non conosce le piccole miserie di simili momenti ? Il compagno di sotto urge impaziente che scendiate mentre quello di sopra protesta che lo trascinate in basso; la corda comune si frammischia alle corde fisse alle rupi, aggrovigliandosi per l’umidità, e indurendosi pel gelo: s’impiglia ovunque, vi avvolge le gambe, vi stringe il petto e vi sfrega il volto.

Tutto è d’impaccio: il sacco che si sposta, la macchinetta fotografica che urta qua e là, la giacca che v’impedisce i moti; persino la tesa del cappello vi dà fastidio. La piccozza è un vero tormento: l’avete legata al braccio con una funicella per avere libere le mani, ed essa sbatacchia per ogni verso, si capovolge, vi percuote gli stinchi, vi stringe il polso o vi ferisce il viso (…).

Scendevamo rapidi, ma le tenebre scendevano su noi più spaventosamente veloci; avevamo sperato un po’ di crepuscolo, ma, fra le nubi dense, la notte anticipava di due ore (…).

(nell’oscurità sopraggiunta ed in mezzo alla tormenta, scendono tutte le tappe della Cresta del Leone: l’Enjambée, la Spalla, la Crête du Coq, la Cravate, la Grande Corde – ndr).

Solo quando passammo presso il Linceul il bagliore della sua neve mi permise di vedere le lancette dell’orologio: avevamo impiegato poco più di due ore dalla vetta a qui. Entrammo nel Vallon des Glaçons; la desolata gola che è oscura anche di giorno era cupa come una tomba; il mauvais pas fu fatto a tastoni (…).

Decidemmo di accendere le lanterne, una in testa e una in coda alla carovana. Ci volle del tempo perché l’aria muoveva e i cerini erano umidi; finalmente le candele brillarono di una fiammella esile, gialla (…). Il raggio della visione era limitato a pochi metri attorno, percepivo che a qualche passo da me il terreno sprofondava in una voragine scura.

Ma già quell’uomo strano (la guida ndr)  si era mosso e scendeva rapidamente nel pozzo con la lanterna in mano, dondolante, ed io dietro a lui, per godere la luce, come una farfalla attorno al lume. Da tergo mi giunse uno strappo violento della corda e una bestemmia; mi volsi e con la coda dell’occhio vidi l’altro lumicino che oscillava fantasticamente fra le balze nere, e altre forme strane di uomini (…).

Scorgevo appigli ove la roccia era liscia, e là ov’era un masso su cui posare il piede vedevo un vuoto; improvvisi bagliori mi accecavano le pupille; le rupi prendevano forme stravaganti, di torvi profili, di fauci spalancate, di statue abbattute, di tumuli aperti (…).

Odo il rumore della lanterna sbattuta contro la piccozza o contro le rupi: la luce precipita, risale, manda sprazzi ed ombre. Lo spettro e la luce scompaiono di botto, per risorgere più lontano, sento che la corda mi trascina al basso e mi precipito. Era una vera corsa all’abisso.

Ma la discesa disperata finisce; il lumicino errante si è fermato; lo raggiungo, tasto con la mano una parete oscura: è di legno. Oh! Una porticina s’apre sotto la spinta; sono nel rifugio.

Benedetto il rifugio! Benedetto il Club Alpino che l’ha costrutto!

 


Le guide

Nell’istante in cui un alpinista, di ritorno da un’impresa difficile, pone il piede sulla soglia dell’albergo, egli incomincia ad essere superiore alle sue guide.

Queste lo hanno lasciato poc’anzi, discrete, senza salutarlo; sono passate modestamente per la porta di servizio, e scomparse nella loro cantina, mentre egli rientra trionfalmente per la porta d’onore, bene accolto dal padrone e dai camerieri premurosi; e, quando dopo il bagno, fattosi bello e pulito, appare, dissimulando la sua stanchezza, dinanzi al pubblico dell’albergo, egli può raccontare a modo suo le proprie prodezze senza testimoni importuni.

E giudica con calma superiore le difficoltà incontrate, non esagera, ma qualche parola lasciata cadere qua e là nel discorso rivela che la situazione in alcuni luoghi dovette essere grave.

E lascia capire che le guide erano spossate, che nella discesa egli ha trattenuto una di esse che sdrucciolava, ma non dice quante volte la guida ha sostenuto lui. Alla table-d’hôte, sul finire di un buon pranzo, i commensali, ignari per lo più di imprese alpine e pur desiderosi di emozioni, restano maravigliati al racconto che loro ha fatto e lodano il suo coraggio, la sua serenità e la sua modestia, mentre nessuno pensa alle guide che cenano umilmente, sole, in una stanzaccia oscura al piano inferiore.

E’ una severa lezione di modestia che le guide danno a noi.


 

Jean-Antoine Carrel

La prima parte del libro è tutta dedicata alla storia della conquista del Cervino, ampiamente raccontata attraverso tutti i personaggi della vicenda, da J.A. Carrel a E. Whymper, da Tyndall alle guide Bennen e Croz, fino ai comprimari come il portatore Meynet, e personaggi importanti come l’abate Gorret, F. Giordano e Q. Sella – ndr

Rare volte l’uomo ricco e potente è disposto a concedere che il povero ed ignorante abbia una volontà sua propria; chi volle giudicare Carrel non tenne conto che egli era rozzo ma non servile; lo si credette fatto, come tanti altri, per obbedire, mentre era nato per comandare; non era uomo da secondare passivamente l’ambizione altrui, perché aveva la sua propria; e questa, e la profonda coscienza pel proprio valore gli fecero velo alla mente fino all’ultimo e non permisero la gloria di toccare per prima la vetta.

Il Cervino esercitava su Carrel lo stesso fascino che già il Monte Bianco aveva esercitato su Jacques Balmat. Era la ragione, lo scopo della sua vita, e voleva salirlo dal lato della sua valle natìa, per l’onore dei valtorneins. Ed egli non vide, non volle credere che il monte potesse essere vinto dal lato opposto; si cullò nell’illusione orgogliosa che senza di lui nessuno sarebbe giunto lassù e non si affrettò. Fu preceduto, e punizione più dura non poteva toccargli (…).

Carrel faceva la guida, ma come oggi si direbbe, en amateur, era cacciatore non guida; l’arrampicarsi su pe’ suoi monti era per lui un istinto, una passione d’arte, non un mestiere; insofferente di regole di guerra, procedeva nella lotta con audaci colpi di mano, a seconda che l’animo suo indipendente gli dettava (…).

(sorvoliamo sulla vicenda – universalmente nota - della vittoria di Whymper per la cresta dell’Hörnli e della successiva salita di Carrel per quella del Leone. Solo alcune note di Rey sull’ultima avventura di Carrel, sceso dalla cresta con Leone Sinigaglia dopo una notte terribile - ndr)

Presso una rupe oggi è piantata una croce. Son passati dieci anni. I pellegrini del Cervino si fermano pietosi a quella rupe; là venne adagiato dai compagni, esausto di forze, il vecchio soldato stanco, dopo un’ultima disperata battaglia; ivi morì (…).

Fu il fine della lunga guerra fra il montanaro e il suo monte; una guerra di trent’anni, piena di passionati ardimenti e di calme resistenze, di lente vittorie, e di disfatte belle come una vittoria.

(…) La voce popolare ha subito rivestito della più nobile forma l’immagine della prima guida del Cervino: “Carrel non è caduto, egli è morto” si disse nella sua valle, e Carrel è rimasto nella leggenda un invitto. Morte più bella non poteva toccare al vincitore del Cervino.

“Carrel è morto da santo e valoroso sulla sua montagna, dopo aver radunato tutta la energia di cui era capace, per salvare il suo viaggiatore; è morto dopo averlo messo al sicuro dai pericoli, esaurito dal supremo sforzo fatto in sedici ore di assiduo lavoro, fra continue lotte e difficoltà, sotto una tormenta che in molti punti pareva di quelle a cui non si resiste.

Non mi ricorderò mai di lui senza una commozione e una riconoscenza infinita” (Leone Sinigaglia).

 

Gianluigi Montresor


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