

Storia del Cai a puntate, il Cai durante gli ultimi anni di regime
di Club Alpino Italiano
Sono anni importanti per l'alpinismo italiano e se si guarda ai nomi illustri attivi in quest'epoca vengono le vertigini. La penna di Linda Cottino ci guida nel decennio '33-43
Ottava puntata della storia del Cai. Siamo in pieno ventennio fascista. A raccontarci questi ultimi dieci anni di Cai sotto il regime è Linda Cottino:
"Siccome io non ho mai tremato sul sesto grado vero, mica quello che hanno inventato adesso per fare la gloria di chi non se la merita, così non ho paura a mandarVi a dire il mio disgusto per la persecuzione che tentate di fare contro di me, ma che si rivolge contro di voi, perché è priva di nobiltà e di giustizia». Parole dure, vibranti. Che riempiono due fitte pagine scritte a macchina, al fondo delle quali la firma è quella della “Signora del sesto grado”, la compagna dei più forti alpinisti del momento, mentore di tanti giovani, che per dodici stagioni consecutive dedicò anima e corpo alla roccia, mettendo a segno alcune delle più importanti scalate tra gli anni venti e trenta.
Questa signora è Mary Varale. E la citazione è l’incipit della lettera spedita alla sede centrale del CAI di Roma in cui essa spiega le ragioni che l’hanno indotta alle dimissioni, il 26 luglio 1935. Dopo questa lettera, Varale scomparirà del tutto dalla scena alpinistica. Che cos’era mai accaduto? Seguiamo ancora il filo del suo pensiero: «Mentre noi arrischiavamo la vita a ogni momento per dare le vittorie all’alpinismo fascista e impedire che le prime scalate le facessero gli stranieri, i vostri competenti da tavolino hanno fatto la scoperta di negare la medaglia all’eroe Alvise Andrich e ai suoi compagni dopo che le sue imprese erano state messe alla pari del canalone del M. Blanc du Tacul, ottocento metri in otto ore. Questa è velocità da quarto grado! Lo stesso Chabod mi ha detto in Grigna che non è 6° grado neanche per sogno, ma che si era proposto lui perché il GUF di Torino voleva a ogni costo le due medaglie».
Di che cosa sta parlando Mary Varale? La polemica da lei innescata si riferisce alla medaglia d’oro negata ad Alvise Andrich per l’apertura nel 1934 della Via dei Bellunesi sul Cimon della Pala, in cordata con Furio Bianchett e con lei medesima, e concessa invece, oltre che a Raffaele Carlesso per l’ascensione della parete sud della Torre Trieste, a Giusto Gervasutti per la Nord del Pic d’Olan e al citato Chabod per il canalone nord est del Mont Blanc du Tacul. Una decisione che alterò l’ordine delle sei scalate proposto da Attilio Tissi, messo a punto dalla commissione preposta e approvato dalla presidenza del CAI.
Ma il Coni, alle cui dipendenze era il Club Alpino (anzi, Centro Alpinistico), «è un organo del regime, fa e disfa come meglio gli garba (...) lasciando di stucco non solo gli interessati ma gli stessi membri della commissione e i dirigenti del CAI», scriverà Vittorio Varale, noto giornalista sportivo che, grazie al suo status di “marito di Mary”, potrà raccontare dal di dentro il mondo alpinistico italiano.
Eccoci dunque immersi appieno nel clima del decennio e delle sue polemiche, con un Cai ormai completamente fascistizzato, come ha ben illustrato Pietro Crivellaro sul numero scorso della rivista, e alle dipendenze del Coni, guidato dal ’33 al ’39 dal gerarca che meglio incarnava il nuovo corso fascista, Achille Starace, obbediente al potere sempre più personalistico di Mussolini. La scelta del Coni, per quanto arbitraria e slegata da ogni principio di merito, non arrivò come fulmine a ciel sereno. Per comprenderlo dobbiamo entrare nel vivo del dibattito alpinistico.
Come sappiamo, gli anni trenta furono gli anni gloriosi dell’alpinismo italiano; gli anni della riscossa, che videro molti tra i cosiddetti “ultimi grandi problemi delle Alpi” risolti per mano dei nostri scalatori, dopo che gli inglesi e gli austro-tedeschi avevano fatto razzia di cime e di prime ascensioni. Furono gli anni della corsa alle pareti nord, del superamento dell’estremo limite, del sesto grado, quell’äußert schwierig che i rocciatori germanici avevano brandito come arma di supremazia nei confronti dei loro colleghi di qua dalle Alpi e i cui massimi interpreti furono i rappresentanti della Scuola di Monaco.
L’elenco anche parziale degli alpinisti attivi in quegli anni mette i brividi. Emilio Comici, Giusto Gervasutti, Riccardo Cassin e i suoi di Lecco, Tita Piaz, Gabriele Boccalatte, Ettore Castiglioni, Bruno Detassis, Giuseppe Dimai, Giovanni e Alvise Andrich, Attilio Tissi, Gino Soldà, Raffaele Carlesso, Renzo Videsott, Renato Chabod, Vitale Bramani, Giovan Battista Vinatzer, Domenico Rudatis, Hans Steger e Paula Wiesinger. Un drappello di grandi che rivoluzionerà la tecnica e la concezione dell’alpinismo, facendogli compiere un balzo in avanti pari solo a quello che si verificherà nel secondo dopoguerra.
Il cuore del decennio si esprime in particolare con alcune carismatiche figure. Tre nomi per tutti e talune ascensioni simbolo. Emilio Comici, che con i fratelli Dimai forza la parete nord della Cima Grande di Lavaredo (1933), ripetuta poi in solitaria dallo stesso Comici (1937), il quale sempre in Lavaredo, insieme con Mary Varale e Renato Zanutti sale lo Spigolo Giallo alla Cima Piccola (1933).
Riccardo Cassin, che pochi giorni dopo aver tracciato la sua via sullo spigolo sud est della Torre Trieste nel gruppo del Civetta si sposta in Lavaredo e compie il suo capolavoro sulla Nord della Cima Ovest (1935), all’epoca «l’architettura rocciosa forse più “impossibile” di tutta la catena alpina» scriverà Gian Piero Motti. Primo tassello del grandioso trittico che includerà la Nord-est del Pizzo Badile (1937) e la Nord dello sperone Walker alle Grandes Jorasses (1938).
E infine Giusto Gervasutti, il friulano divenuto torinese, che in poche stagioni sale la Nord ovest del Pic d’Olan (1934), il couloir alla Tour Ronde, il Pic Adolphe (1934), la cresta sud del Pic Gaspard (1935), la parete nord ovest dell’Ailefroide (1936) e, più tardi, il Pilone Nord del Freney al Bianco (1940) e il suo capolavoro: la parete est delle Grandes Jorasses (1942).
La propaganda fascista sfruttò a piene mani i successi degli scalatori italiani, cooptando l’alpinismo per alimentare il mito dell’eroe sportivo come modello dell’italiano nuovo. Alcuni di essi si prestarono attivamente – è il caso di Comici o, come abbiamo visto, di Mary Varale – altri si tennero in disparte, come Gervasutti, altri ancora attesero l’8 settembre ’43 per manifestare il loro dissenso e impegnarsi in prima persona nella Resistenza: è il caso di Cassin e di Castiglioni.
Al momento, però, il regime è onnipervasivo e il CAI con il suo presidente Angelo Manaresi è legato in via diretta, attraverso il Coni, al Partito Nazionale Fascista. È questo il contesto in cui deve essere letta l’assegnazione delle medaglie alle tre migliori imprese del 1934. Ma quali fossero tali imprese e con quali criteri sceglierle, quale grado di difficoltà attribuire loro e sulla base di quale scala, ebbene, era esattamente questo “il” problema attorno a cui in quegli anni si agitava la comunità alpinistica, e di riverbero il CAI.
Nel 1926, lo scalatore tedesco Willo Welzenbach, presa come esempio di sesto grado superiore la salita nelle Alpi Calcaree Settentrionali della Sud-Est del Fleishbank da parte di Roland Rossi, aveva per primo stilato una scala di difficoltà chiusa appunto al sesto grado. In Italia, tale grado estremo rimaneva avulso da un criterio coerente di valutazione nella progressione delle difficoltà, era considerato piuttosto un accidente, un eventuale singolo passaggio nel corso dell’ascensione. Questo, almeno, finché non comparve sulla scena il forte dolomitista veneziano Domenico Rudatis.
Profondo conoscitore delle filosofie orientali, Rudatis sviluppò un pensiero articolato e originale, arrivando a intendere «l’alpinismo e soprattutto l’arrampicata estrema», scrive Gian Piero Motti nella sua Storia dell’alpinismo, come «il mezzo ideale per superare se stessi, per uscire dalla vile condizione soggetta al destino e per scoprire una dimensione di libertà in cui ci si riuniva a tutte le forze del cosmo».
Rudatis, che era un eccellente scalatore – con i bellunesi compì imprese di valore assoluto – oltre che straordinario conoscitore della Civetta, proprio sul volume dedicato alle Dolomiti Orientali di Antonio Berti riuscì a includere un capitolo intitolato “I gradi di difficoltà”: prima apparizione di un documento del genere.
Ma tornando al dibattito che agitava le componenti del CAI, se da un lato, c’era Rudatis che, perorando la causa di una migliore e più precisa valutazione delle difficoltà, dava voce alle salite dei forti rocciatori dolomitici, proposti come i massimi interpreti di uno stile tecnicamente più evoluto e improntato alla competizione; dall’altro, a occidente, resistevano gli epigoni della tradizione, fautori di un alpinismo colto e aristocratico, fatto di lunghe marce di avvicinamento, di terreni mutevoli di neve e ghiaccio, per i quali pareva impossibile stabilire una rigida classificazione delle difficoltà. Senza contare che secondo questi signori le montagne a oriente non erano molto più che dei semplici “paracarri”.
Le maggiori resistenze si scatenarono in particolare a Torino, culla dell’alpinismo italiano, dove le montagne si chiamano Monviso, Gran Paradiso, Monte Bianco, Cervino, Monte Rosa. E dove si difende una sorta di egemonia morale, tanto più all’indomani del trasferimento a Roma della sede centrale del CAI e della Rivista Mensile.
La nuova generazione dolomitica del sesto grado venne così a contrapporsi ai “vecchi bonzi” dell’alpinismo tradizionale, e tra le due fazioni si scatenò una battaglia feroce, fatta di continui botta e risposta, di lettere, di articoli inviati alla Rivista Mensile e spesso rifiutati; un dibattito aspro che dietro il linguaggio cifrato degli alpinisti celava comunque un anelito di modernità.
Gradi, scale di difficoltà, arrampicata libera versus alpinismo classico sono concetti che impiegheranno del tempo per integrarsi, ma che fortunatamente trovavano già applicazione sul campo grazie alle salite di eccezionale valore che si stavano compiendo.
Significativo del processo di modernizzazione ormai innescato, un passaggio della lettera che Emilio Comici, autorevolissimo testimonial del nuovo corso, scrisse a Vittorio Varale all’indomani di una sua conferenza a Torino alla fine degli anni trenta:
«Ho avuto un pubblico attentissimo come non mai. L’ho sentito interamente avvinto a me, portato nel regno di quella vertigine (...) In parecchi mi hanno detto che la mia parola ha valso ad avvicinare l’animo dei due tipi di alpinismo: l’occidentale e l’orientale, e che la mia conferenza vale come dieci anni di propaganda alpinistica. Come vedi anche l’ambiente più restio e più scettico ha finito con l’ammirare il nostro alpinismo moderno»".
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