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Storia del Cai a puntate, l'Italia durante il Fascismo

di Club Alpino Italiano

Dopo meno di un secolo fa iniziava il ventennio. Pietro Crivellaro ci guida all'interno di questo periodo storico, raccontandoci il sodalizio in quegli anni

Poco meno di un secolo fa in Italia iniziava il ventennio fascista. Per ripercorrere la storia di questi anni del Club alpino italiano ci affidiamo a Pietro Crivellaro:

"Alla fine del 1933, tirando le somme di 70 anni di vita del Cai, il presidente Angelo Manaresi presenta la forza del Sodalizio: 151 sezioni con un totale di 64.540 soci, di cui 'ventiduemila goliardi'. Rispetto a dieci anni prima i Soci sono pressoché raddoppiati. Inoltre il presidente-gerarca bolognese può essere davvero soddisfatto del primo triennio del suo operato, perché dal 1930 ha favorito l’aumento delle sezioni, salite da 99 a 151, con la conseguente diffusione capillare del Cai nella penisola. Ma il primo grande salto nel numero dei Soci è avvenuto in seguito alla Grande Guerra, anzitutto grazie all’acquisizione dei territori finalmente redenti di Trento e Trieste, con l’aggiunta della provincia di Bolzano, tutte zone ad altissimo tasso alpinistico già sotto l’Austria. Alla vigilia della guerra mondiale i Soci erano soltanto 10 mila, limite che viene superato solo nel 1919. Nel 1924 i tesserati Cai sono già saliti a 35 mila. Il quinquennio 1925-1930 è un periodo di assestamento. Ma è dal 1930, con Manaresi, che il diagramma si impenna a balzi successivi fino a superare il tetto dei 75 mila Soci allo scoppio della seconda guerra mondiale.

L’andamento della consistenza numerica è il primo criterio per valutare la crescita e la forza del Cai. Lapalissiano. Ma pongo l’accento sulla forza per riecheggiare lo stile tipicamente fascista e militarista del periodo. Che fu lo stile di tutto il CAI, non solo del suo infaticabile presidente che dal 1930 fino alla caduta del Duce e del fascismo, il fatale 25 luglio 1943, riunì idealmente alpini e alpinisti. Lui solo tenne il comando sia del Cai, sia dell’Ana, l’Associazione Nazionale Alpini, da lui trasformata nel 1929 nel virtuale 10° Reggimento alpini. Lui solo diresse con la sua retorica reboante sia la «Rivista Mensile» del CAI, la storica madre di questa testata!, sia «L’Alpino», l’organo dell’Ana fondato da Italo Balbo. Nel CAI Manaresi punta a emulare e ad avvicinarsi ai traguardi dell’Alpenverein austro-tedesco, come svela un suo editoriale a metà 1931 dall’eloquente titolo Cifre. Allora il D ̋oav, il rivale da imitare, schiera nel 1931 'ben 240 mila Soci, 440 sezioni, 625 rifugi!' che egli considera, sette anni prima dell’annessione hitleriana dell’Austria, 'formidabile Anschluss di alpinisti, terribile esercito di montanari di parlata tedesca'.

'Qui non si fa politica!' Insorgerà prontamente qualche lettore di una certa età, riprendendo un ritornello di moda soprattutto dal ‘45 alla svolta socioculturale del ‘68, quando a tanti dirigenti Cai cresciuti col fascismo premeva soprattutto voltare pagina e far dimenticare il passato imbarazzante. Il libro di Alessandro Pastore Alpinismo e storia d’Italia (Il Mulino, Bologna 2003) e quello di Marco Cuaz Le Alpi (Il Mulino, 2005) hanno finalmente legittimato la delicata questione dei rapporti tra Club alpino italiano e politica durante il ventennio, questione ostinatamente evitata e rimossa in casa CAI brandendo il postulato dell’apoliticità. Invece basta sfogliare la scrupolosa cronologia, ahimé barbosissima e perciò ignorata, già pubblicata nel volumone del centenario La vita del Cai nei suoi primi cento anni curata da Silvio Saglio (pp. 117-348), basta consultare la raccolta degli statuti (pp. 369-400) per rintracciare le prove clamorose che il postulato dell’apoliticità non sta in piedi. Si preferisce leggere e si ristampa la ben più celebre storia di Massimo Mila che ha raccontato e celebrato Cento anni di alpinismo italiano ignorando Italo Balbo, Manaresi e Ardito Desio, 'come fossero solo politicanti infiltrati', fedele alla 'bella favola', alla 'pietosa finzione' dell’alpinismo italiano estraneo alla politica (M. Cuaz, Alpinismo, politica e storia d’Italia, in I rumori del mondo, Le Chateau, Aosta 2011, pp.200-210).

A colpo d’occhio si può constatare - sempre sul volumone del centenario - che la sequenza cronologica delle assemblee dei delegati si interrompe nel 1927 con quella di Genova e riprende regolare solo con quella del 1946 a Milano, la prima del nostro dopoguerra. 'Dal 1928 al 1945 non si sono tenute Assemblee dei Delegati - spiega il redattore - per la trasformazione autoritaria del Cai e da ultimo per lo stato di guerra'. Si terranno in compenso le più marziali adunate. Un sopruso imposto dal regime alla libera autodeterminazione dei Soci, penserà qualcuno. Non sembra proprio, a leggere il vistoso annuncio del presidente Cai Eliseo Porro in apertura alla «Rivista Mensile» del 1927: 'Il nostro Sodalizio è oggi ufficialmente, attraverso la sua iscrizione al Coni, fascisticamente inquadrato nelle falangi degli atleti italiani'. Secondo Porro - presidente Cai dal 1922 e docente di Diritto all’università di Pavia - si tratta di una necessità e di una semplice continuazione del cammino. E conclude collegando idealmente Quintino Sella al Duce: 'Siamo dunque degni di essere fascisti, e i figli spirituali del Tessitore della Val Mosso continuano il suo pensiero, la sua opera, e il suo amore, diventando legione di Benito Mussolini'. Ogni dibattito sulla questione 'sport sì o no?' a quanto pare fu troncato. Solo due mesi prima dell’annuncio della novità, l’ultimo numero della «Rivista Mensile» del 1926, si apriva con un lungo e pedante articolo sul tema L’alpinismo è uno sport? No, dichiara subito l’autore, Camillo Giussani della sezione di Milano.

Invece, contrordine camerati! taglia corto il presidente Porro, e il CAI, indossata la camicia nera, si trasforma di colpo in una federazione sportiva inquadrata nel Coni. Il 10 aprile 1927 l’assemblea dei delegati a Genova – l’ultima fino alla liberazione – benché messa di fronte al fatto compiuto, plaude alla svolta epocale. Senza la politica non si spiegano ad esempio gli enormi progressi e i successi italiani del sesto grado negli anni Trenta. Il vero artefice della trasformazione sportiva del CAI non è certo l’avvocato Porro che ha solo assecondato i piani del presidente del Coni, il toscano di Pontedera Lando Ferretti, che fu l’ideologo della politica sportiva dell’Italia fascista. Con lui, decorato di guerra e brillante giornalista alla «Gazzetta dello Sport», seguace delle idee del fisiologo torinese Angelo Mosso, il vertice del Coni cessa di essere elettivo e viene designato dal segretario del Partito Nazionale Fascista. Lo stesso sarà nel CAI, sia al vertice, sia nelle sezioni: i presidenti designati dall’alto devono essere anzitutto fascisti ferventi. Dal Partito discende così una gerarchia piramidale totalitaria che inquadra nel Coni le federazioni di sport competitivi, alpinismo incluso, e diffonde la pratica sportiva tra gli universitari attraverso i Guf, Gruppi Universitari Fascisti, e tra i lavoratori attraverso l’Ond, Opera Nazionale Dopolavoro. Nel 1928 Ferretti passa dal Coni a capo ufficio stampa di Mussolini, ma continua a svolgere il suo 'apostolato' per lo sport nazionale, dirigendo tra l’altro il mensile «Lo sport fascista». (Nel 1939 sarà espulso dal partito per aver criticato l’alleanza con Hitler e le leggi razziali).

La sua prestigiosa rivista - oggi ahimé introvabile nelle biblioteche – pubblica dal 1930 al 1934 un ciclo di articoli del veneziano Domenico Rudatis sullo sport dell’'arrampicamento'. Solo alcuni sono ripresi sulla «Rivista Mensile». Il giovane ingegnere d’origine bellunese martella sull’obiettivo del “sesto grado” perché, come si sa, è un dolomitista militante che scala nel gruppo del Civetta con Renzo Videsott, Attilio Tissi, Giovanni e Alvise Andrich, Ernani Faè. Sono i suoi articoli con le imprese dei bellunesi, che spronano gli arrampicatori italiani a italianizzare le pareti dolomitiche da poco redente, sulle orme di austriaci e tedeschi come Emil Solleder, Fritz Wiessner, Roland Rossi che per primi hanno aperto di qua dal Brennero vie di sesto grado, l’estremo su roccia. A Ferretti nel 1928 succede nel Coni il segretario del Pnf Augusto Turati, ras del fascismo bresciano. Questi nella primavera 1929 assume anche la presidenza del CAI e, sviluppando il piano sportivo di Ferretti, in un amen fa trasferire a Roma la sede centrale dove resterà fino al 1943.

Sulla «Rivista Mensile» basta un asciutto comunicato di due righe in data 29 aprile. A Torino si mugugna, ma nessuno osa fiatare. Nel riordino fascista l’istanza sportiva porta anche allo scioglimento del Caai come sezione autonoma. Ma già nel marzo 1930 Turati cede il comando del CAI a Manaresi e ben presto lascia anche il Coni e la segreteria del partito. Per sottrarsi all’ostilità di Farinacci, torna a fare il giornalista, prima al «Corriere della Sera» e poco dopo viene chiamato da Giovanni Agnelli a dirigere «La Stampa» dove succede a Curzio Malaparte (socio Sucai!). Ma nel 1932 il Turati fascista sarà travolto da uno scandalo a sfondo sessuale ordito da Farinacci con la questura di Torino: espulso dal partito, finirà prima in manicomio e poi in esilio a Rodi. Assunto il comando del Cai, il podestà bolognese e sottosegretario alla guerra Manaresi si adoperò anzitutto per potenziare il Sodalizio varando un nuovo statuto e completando l’annessione forzosa di tutte le altre associazioni alpinistiche come l’Uget a Torino, la Sem a Milano, la Sosat a Trento, la cattolica Giovane Montagna.

Per ringiovanire l’età media e reclutare i giovani rifondò l’Accademico aprendolo anche ai ventenni e trentenni più brillanti e, soprattutto, stipulò un accordo con il Guf per offrire ai 40mila universitari italiani la tessera del CAI quasi gratis, una mossa strategica. Nel 1933 costituì il comitato scientifico mettendo a capo Ardito Desio, grande amico di Italo Balbo. Quell’anno il CAI inaugura sul Monte Rosa il Trofeo Mezzalama, una gara di scialpinismo ritenuta estrema, mentre Emilio Comici con i Dimai espugna la muraglia nord della Cima Grande di Lavaredo. Tutti possono vedere che anche l’alpinismo italiano è ormai degno del paese che alle Olimpiadi di Los Angeles (1932) si è imposto come la maggior potenza sportiva europea, l’Italia di Mussolini".

 

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