

Dall'Archivio di Monti e Valli, maggio 2001: «40 anni fa, il Pucahirca Central…»
di Mauro Brusa
Il 13 giugno 1961 alle ore 15, quattro uomini della spedizione italiana organizzata dal CAI Torino per mezzo della Scuola “Gervasutti” vinsero per la prima volta il Pucahirca Central (6050 m, Cordillera Blanca), una delle più importanti cime ancora inviolate delle Ande peruviane.
L’impresa ebbe una eco straordinaria nell’ambiente alpinistico torinese, anche perché i componenti della spedizione (Giuseppe Dionisi, Mildo Fecchio, Piero Fornelli, Giuseppe Garimoldi, Luciano Ghigo, Giuseppe Marchese, Giovanni Miglio, Arturo Rampini, più il medico Luciano Luria ed il geologo Giorgio Dal Piaz) appartenevano tutti alla già leggendaria Scuola Nazionale di Alpinismo “Giusto Gervasutti” del CAI Torino, meno i due studiosi.
Poiché ricorre quest’anno il 40° anniversario della conquista, rivisitiamo l’evento insieme a Luciano Ghigo (foto a lato), Accademico del CAI, allora vice capo spedizione, nonché - successivamente – Direttore della “Gerva” dal 1970 al 1973.
Luciano oggi è il responsabile del CISDAE, il Centro Italiano Studi e Documentazione sull’Alpinismo Extraeuropeo dislocato presso il Museo Nazionale della Montagna. Nel suo ufficio si studia la storia delle più importanti spedizioni alpinistiche in terre lontane e il luogo non poteva essere più appropriato per tale rievocazione.
Come maturò il progetto di una spedizione andina e perché la scelta cadde proprio sul Pucahirca?
La spedizione al Pucahirca Central va considerata come la naturale prosecuzione di quella del 1958, sempre organizzata dal CAI Torino con Dionisi come capo spedizione, ma avente per oggetto una valle laterale rispetto al Pucahirca.
Lì effettuammo (o credemmo di effettuare, poiché non vi era certezza sul primato) alcune prime salite di cime sui 5.500 - 5.600 metri. Come nel ‘58, anche la spedizione del 1961 aveva per obiettivo la ricerca di nuovi orizzonti e di nuove ascensioni; e il Pucahirca, già oggetto di precedenti tentativi da parte della spedizione di Raymond Lambert nel ‘57 e di una bergamasca nel ‘60, era uno stimolo in più.
I fondi per finanziare la spedizione furono stanziati, oltre che dalla Sezione di Torino, anche dalla Sede Centrale e dalla Città di Torino. La preparazione e lo studio richiesero circa un anno, neanche molto considerato che all’epoca non si avevano le conoscenze attuali sulle necessità logistiche e di acclimatamento.
Avevate avuto contatti o scambi di informazioni con i protagonisti dei precedenti tentativi?
Sì, con i bergamaschi che nel ‘60 avevano in parte attrezzato con corde fisse la cresta dello sperone centrale e che ci fornirono notizie sul tipo di difficoltà da loro incontrate. Senza dimenticare la collaborazione del Club Andino Peruviano, con l’assistenza del quale fu organizzata sul posto la carovana per il trasporto dei materiali al campo base.
Il Pucahirca Central (foto G. Garimoldi)
Qual è stato l’aspetto tecnico (o logistico) che più vi ha creato difficoltà?
La conformazione della montagna e le particolari condizioni climatiche. Le precedenti spedizioni infransero i loro tentativi nella parte superiore della salita, ostacolata da pareti ghiacciate strapiombanti e ricoperte da uno strato di neve spugnosa e compatta, particolarmente insidiosa, frutto del clima locale, che non permetteva l’uso dei normali chiodi da ghiaccio. Noi ci portammo dei fittoni di legno della lunghezza di un metro, un metro e mezzo, che si rivelarono risolutivi.
Le condizioni atmosferiche, inoltre, erano poco favorevoli, poiché nevicava in continuazione. A volte, di notte, occorreva uscire dalle tende per spalare la neve per non rimanervi sommersi. Tutto questo senza dimenticare le difficoltà create dall’alimentazione (noi non disponevamo dei ritrovati odierni), dalla lunga permanenza a quote elevate e da temperature che spesso toccavano i 30° sotto zero nella notte.
C’è stato un momento in cui avete temuto per il fallimento?
Più che un momento, vi era una generica apprensione legata alle condizioni meteorologiche che avevano determinato un preoccupante sovraccarico di neve sulle pareti strapiombanti.
Qual’era il clima al campo? C’era competizione fra i membri della spedizione?
No, per nulla; vi era anzi un notevole spirito di collaborazione. Le cordate, organizzate a coppie, si alternavano allo stesso modo nell’attrezzare la via o nel liberare le corde, sia le nostre che quelle lasciate dalla spedizione precedente e continuamente ricoperte di neve. Non vi erano né gregari, né “primedonne”.
Io e Garimoldi arrivammo fino al colle sotto alle pareti strapiombanti, il famoso muro di ghiaccio che sembrava difendere la vetta; poi il solito maltempo impose una pausa di due giorni. Garimoldi e Fornelli si dedicarono a cime più basse. Non appena le condizioni lo permisero, servendoci dei fittoni per gli ancoraggi, superammo i salti strapiombanti e raggiungemmo la punta a pomeriggio inoltrato. Eravamo divisi in due cordate: Dionisi con Marchese ed io con Fecchio.
Legato alla conquista della vetta, ricordo un episodio simpatico. Contemporaneamente al nostro, si andava svolgendo un tentativo da parte di una spedizione giapponese, che però aveva preso di mira il versante opposto a quello scelto da noi. Quando noi giungemmo in vetta, vedemmo i giapponesi un 500 m sotto di noi, naturalmente dall’altra parte, e loro videro noi in cima. Incontrarono troppe difficoltà e rinunciarono. Effettuarono tutto il periplo del Pucahirca per raggiungere il nostro campo base e congratularsi con noi. Ci
portarono addirittura dei fiori, dimostrando una sportività straordinaria. Rimasero stupiti delle nostre dotazioni, anche alimentari. Rammento che gli donammo del latte condensato. Due anni or sono, il capo di quella spedizione è venuto a farmi visita proprio qui, al CISDAE.
Campo 1° provvisorio sul ghiacciaio del Taulliraju, quota 5000 m ca., 21.5.1961 (foto G. Garimoldi)
Momenti di amarezza?
No, non direi. Ricordo piuttosto una “beffa”, ma riguarda una spedizione successiva. Nel 1970 andammo sulla Cordillera Raura (parallela alla Cordillera Blanca) che, secondo le nostre informazioni, aveva ancora cime vergini da offrire. Durante l’avvicinamento incrociammo una spedizione neozelandese di ritorno.
Ci fermammo per uno scambio di notizie e, con nostra somma delusione, scoprimmo, carte alla mano, di essere stati preceduti proprio dai neozelandesi che erano in zona da tre mesi. Salite importanti se ne fecero comunque e trovammo anche il tempo per organizzare un corso di alpinismo per i portatori peruviani.
A proposito di capi - spedizione, il vostro era Giuseppe “Pino” Dionisi, il fondatore della “Gerva”: che ricordo hai di lui di quei giorni?
Straordinario. Seppe sempre mantenere alti il morale e l’entusiasmo e, come dicevo, la coesione e lo spirito di gruppo, malgrado le condizioni avverse che avrebbero potuto demoralizzare chiunque. Ebbe la capacità di minimizzare le difficoltà, mantenendo in tutti desta la volontà di conquistare la meta. E di conquiste importanti in zona ne collezionammo almeno altre cinque, tutte oltre i 5000 metri d’altezza: Nevado Union, Nevado Isabella, Nevado Monaco, Nevado Superga, Nevado Italia 61. Alcune, solo quotate sulle carte, non avevano neppure un nome e provvedemmo noi a nominarle.
Cambiamo argomento, rimanendo però in tema: recentemente, in occasione dell’Assemblea Ordinaria del CAI Torino del 24 novembre 2000, l’Accademico Franco Ribetti ha proposto di riprendere in considerazione l’idea di organizzare una spedizione all’estero. Ritieni che, oltre ad attirare l’attenzione sul CAI Torino, una simile iniziativa servirebbe ad avvicinare nuovi giovani al CAI?
Sicuramente. Direi che sarebbe ora di fare qualcosa per destarsi dal torpore che sembra avere avvolto l’alpinismo torinese.
Non sono necessari progetti faraonici, pur rimanendo notevole la massa di lavoro preparatorio anche per una spedizione dagli obiettivi più modesti.
Quebrada di S. Cruz - Marcia di avvicinamento - 16.5.1961 (foto G. Garimoldi)
Ma oggi hanno ancora senso le spedizioni organizzate dalle Sezioni o ormai sono appannaggio delle cosiddette “spedizioni commerciali”? E di esse che ne pensi?
Certo che hanno ancora senso, specie se fossero orientate a zone inesplorate o poco esplorate. È importante conoscere le montagne diverse dalle Alpi. Chi ha detto che non c’è più niente di nuovo da scoprire? Cos’è ‘sta mania della corsa agli ottomila? Chi ha detto che per fare spedizioni extraeuropee bisogna per forza andare sugli ottomila?
Buona parte del versante cinese dell’Himalaya, costituito di cime più modeste, è ancora da esplorare. I lombardi ci stanno provando adesso, perché hanno fiutato i tempi. Una spedizione senza grandi pretese servirebbe a creare l’atmosfera, a preparare il terreno per eventuali imprese più impegnative. Volendo, c’è ancora molto da fare e da scoprire.
Le spedizioni commerciali, poi, lasciamole dove sono, perché non hanno nulla da spartire con l’attività sociale. Attirano gente senza preoccuparsi delle effettive capacità dei partecipanti; e la cronaca recente ha dovuto tristemente occuparsi delle conseguenze.
Ritengo poi che le spedizioni guidate e preconfezionate abbiano un altro risvolto negativo: non generano interesse per la scoperta e per lo studio di nuovi ambienti propizi a salite interessanti.
Cosa è cambiato negli alpinisti di punta di oggi rispetto a quelli della tua generazione?
Molto. O niente. O tutto. L’orientamento attuale è rivolto ai grandi risultati tecnici immediati, specie nell’arrampicata. E forse c’è un po’ di disaffezione verso un certo tipo di alpinismo extraeuropeo perché c’è troppo da faticare e da soffrire.
Nei giovani manca una figura che sappia catalizzare l’aspirazione ad uscire dalle Alpi, come invece sta pian piano succedendo in Lombardia ed in Veneto.
Il problema è che da noi, per svariati motivi, non è stato passato il testimone dell’entusiasmo sociale, l’orgoglio di essere CAI, cosicché tutto si è poco a poco afflosciato.
Oggi si fanno molte “spedizioni personali”, che non hanno risonanza, anche perché da anni sono stagnanti i rapporti con i grandi media che hanno poco interesse per l’alpinismo. Poca risonanza vuol dire poco coinvolgimento di sponsor e di Enti pubblici e privati. Inoltre, troppe delle cosiddette “spedizioni” attuali sono fini a se stesse: non circola informazione, non circolano studi e gli sponsor se ne disinteressano. Diverso è il discorso delle spedizioni scientifiche, lì gli sponsor saltano fuori, eccome!
Secondo te, è verosimile l’opinione di taluni, secondo cui l’alpinismo di punta è finito?
No, non è finito: è cambiato! L’alpinismo di punta è tutt’altro che finito. Soltanto che oggi, risolti i grandi problemi che avevano tenuto banco per un po’ di anni, non fa più sensazione. Ma l’attività, sia dei singoli che delle Sezioni, è sempre ad altissimo livello. Semmai preoccupa che sia sempre meno delle Sezioni e sempre più dei singoli…
Un’ultima domanda: cosa ne pensi della proposta di modificare l’Articolo 1 dello Statuto del CAI?
Ammodernare una presentazione ottocentesca dell’alpinismo non deve voler dire stravolgere la natura del CAI.
A chi volesse trascorrere piacevoli momenti nell’avvincente lettura, direttamente dalla penna dei protagonisti, degli avvenimenti concernenti la partenza, il viaggio, l’organizzazione e i preparativi della spedizione e partecipare, attimo per attimo, ai numerosi tentativi di ascensione e alla agognata conquista del Pucahirca Central e di altre cime importanti della Cordillera Blanca, consigliamo di riprendere Scàndere del 1961 e la Rivista mensile del Club alpino italiano, n. 11-12 del medesimo anno, dove si potranno trovare, oltre alle suddette informazioni, anche numerose fotografie in bianco e nero.
In Biblioteca nazionale del CAI si può inoltre consultare il Programma dattiloscritto della spedizione alpinistica extraeuropea alla Cordillera Blanca, dove vengono presentati gli scopi, la zona prescelta, i componenti della spedizione, il tutto corredato da una foto e da 3 schizzi geografici. (Nota a cura della Biblioteca Naz.le del CAI).
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