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I 45 anni dell’Aruga-Poma

di Carlo Crovella

Data l’importanza degli argomenti trattati, si ritiene interessante proporre, anche per i lettori di Monti e Valli, l'intervista (uscita sul Gogna Blog), a Roberto Aruga, uno dei due autori del noto libro “Dal Monviso al Sempione”, dalla cui prima edizione sono trascorsi 45 anni.
Roberto è anche socio della Sezione di Torino del CAI dal 1963, di cui è stato anche Consigliere.
Nonostante lo spessore dei contenuti, l’intervista è in realtà una chiacchierata confidenziale fra due grandi appassionati di scialpinismo. Roberto è uno dei miei Maestri di editoria di montagna (scialpinistica in particolare, ma non solo): seguendo anche le sue tracce, sulla neve come sulla pagina, ho affinato quell'arte immateriale che è il più profondo “succo” dell'andar per i monti.
Ancor oggi, che scrivo di montagna da 40 anni consecutivi, mi accorgo che, da personaggi come Roberto, c'è sempre da imparare (Carlo Crovella).


L’Aruga-Poma ha compiuto 45 anni

Intervista a Roberto Aruga

La celebre raccolta di itinerari scialpinistici intitolata "Dal Monviso al Sempione" (CDA Torino), meglio nota come l’Aruga-Poma, ha compiuto 45 anni. La prima edizione risale infatti al 1974.

Pur essendo stato anticipato di qualche stagione dal libro gemello "Dal Col di Nava al Monviso" (edito anch’esso dal CDA, a cura del CAI Mondovì), l’Aruga-Poma resta un must dell’editoria scialpinistica e ha innescato una sequenza di altri analoghi libri del CDA, che, di blocco in blocco, hanno “spazzolato” l’intero sistema alpino verso oriente fino al confine con l’Austria.

L’impostazione dei libri del CDA prendeva spunto da alcuni precedenti, in particolare pubblicati dai coniugi francesi Claude e Philippe Traynard. Tuttavia la “pulizia” delle schede del CDA (due pagine contrapposte: da un lato la descrizione, sintetica ma esaustiva, con tutti i dati logistici di appoggio, e dall’altro la foto dell’itinerario) ha fatto davvero scuola nel mercato italiano e se ne trova traccia ancora oggi.

A distanza di 45 anni dall’uscita, prendiamo l’occasione per scambiare quattro chiacchiere con uno degli autori, Roberto Aruga. Gran conoscitore di montagna, non solo innevata, Aruga ha collaborato anche alla redazione della Guida CAI-TCI Alpi Cozie Settentrionali, all’aggiornamento delle Alpi Cozie Centrali (sempre CAI-TCI)e, fra tante pubblicazioni, vanta anche un’altra raccolta di itinerari sulla neve: Scialpinismo fra Piemonte e Francia (CDA, 1998).

Con lui si può parlare per ore e ore di montagna, specie con gli sci. Vediamo di concentrarci su alcuni spunti specifici derivanti dall’anniversario in questione.

Il libro del ’74 ha 45 anni, ma sembra non dimostrarli. E’ ancora fresco, le gite sono davvero belle, l’impostazione è fluida e utilissima per il lettore che programma le sue gite. E’ ancora attuale o cambieresti qualcosa?

Roberto Aruga e Cesare Poma, ventenni, si preparano per un’arrampicata in Valle Stretta. Foto: Piero Villa.

Penso che sia giusto riconoscere l’immediatezza e la validità estetica di questo modello di impostazione delle guide (naturalmente si parla di guide antologiche e non sistematiche, totalmente differenti e non paragonabili). Però l’attualità del libro in sé è ormai piuttosto relativa, in quanto la montagna oggigiorno cambia continuamente e un buon numero di descrizioni andrebbero rivisitate e aggiornate. In effetti anni addietro insieme a Poma fui contattato dal CDA per una eventuale quarta edizione del Monviso-Sempione, ma a quel punto il libro in buona parte si sarebbe dovuto riscrivere e la cosa non ebbe seguito.

Oggi esistono strumenti informativi che allora non si immaginavano neppure. Per esempio i siti di recensioni di uscite individuali, arricchiti anche dalla relazione dell’itinerario. Un’evoluzione o un trabocchetto?

La carta è il simbolo dell’immobilità mentre la neve cambia senza sosta, da un giorno all’altro, da un’ora all’altra. Quando progetti una gita con gli sci per l’indomani è importante sapere qual è la quantità e la condizione della neve, e questo la carta non te lo potrà mai dire. Ben vengano dunque i siti online nei quali chi è appena tornato dalla gita ti ragguaglia su quello che ha trovato. Ma qui sorge il problema: come usare questi siti? C’è chi parte per la gita che ha raccolto i voti migliori, e pazienza se poi si troverà nella folla e sulla neve arata da mille passaggi. Oppure c’è chi si tiene lontano da quella zona e va dove potrà trovare solitudine e neve buona o meno buona ma comunque intatta o quasi. C’è infine una terza via, intermedia, quella di chi con calcolo sottile va nella zona che ha raccolto consensi ma non proprio sullo stesso itinerario. Va un po’ più in là, nella speranza di trovare neve buona ed evitare la folla.

Salita al Monte Cassorso (Val Maira)

Altre novità dovute allo sviluppo della tecnologia. Le app in generale e in particolare le tracce scaricabili sullo smartphone. Alcune, grazie al GPS, segnalano la progressione lungo la traccia. Questi strumenti ottimizzano l’efficacia dell’utilizzatore o soffocano la capacità di ragionamento individuale?

E’ fuori di dubbio che ci troviamo sulla strada che ci porta a una sempre più invadente presenza della tecnologia. C’è chi si situa a un maggiore livello di tecnologia, chi a un livello minore. Io mi situo a livello della carta topografica e del sito online di cui si parlava prima, pensando che così da un lato dispongo dell’informazione di base ma dall’altro lato lascio ancora un certo spazio al ragionamento e alla ricerca individuale.

In ogni caso la strada della crescente tecnologia è una strada obbligata su cui veniamo spinti da una forza che ci è superiore. Inutile strillare, appare più sensato sfruttare la relativa libertà che ancora abbiamo di situarci in un dato punto piuttosto che in un altro di questa strada.

Più in generale come vedi il settore editoriale dello scialpinismo? Che trend ha registrato negli anni passati e quali evoluzioni ti aspetti d’ora in avanti?

Il canalone Aruga-Scala alla Punta Ramière

Riguardo al supporto tecnologico, dopo l’esito non esaltante e forse non previsto degli e-books, andrei cauto nel fare previsioni. Il supporto tradizionale, quello delle edizioni su carta, ha presentato in passato notevoli disparità. In questo comparto infatti da un lato ci sono state avanguardie costituite per esempio dal tedesco Walter Pause (e del Pause secondo me si parla troppo poco, considerando i numeri stratosferici di copie vendute delle sue guide scialpinistiche) e successivamente dai Traynard in Francia, mentre dall’altra parte ci sono paesi come il nostro, partito in relativo ritardo nel campo delle guide scialpinistiche a grande diffusione. In ogni caso, restando nel comparto delle guide, penso che in linea di massima si possa prevedere una produzione cartacea non più a livello dei tempi d’oro anche per la concorrenza della comunicazione online, ma comunque a livello di una accettabile sopravvivenza.

Visto che si sta parlando del settore editoriale, concedimi una breve osservazione. E’ un fatto evidente che nelle pubblicazioni a stampa l’immagine sta progressivamente guadagnando terreno, e in modo arrembante, a spese del testo. Il binomio scrittura-lettura, che per lunghi periodi tra Ottocento e Novecento significava in primo luogo trasmissione di idee, si sta sempre più trasformando in un meno impegnativo vagare dell’occhio su sequenze di immagini. In fondo si tratta di un tacito accordo tra autore e lettore: fare un click è enormemente più facile e rapido che elaborare un’idea e un qualcosa di analogo succede dall’altra parte, quella del destinatario dell’opera, dove, a giudicare dalla mancanza di reazioni, si direbbe che l’alleggerimento del ‘lavoro’ della lettura sia tutto sommato gradito. Difficile fare previsioni a questo proposito. Mi limito a constatare il fenomeno, con profondo rammarico.

Lo scialpinismo e il racconto. Un settore ancora poco esplorato, specie in confronto al corrispondente comparto connesso all’alpinismo, dove i testi di fiction stanno aumentando a vista d’occhio. Per i racconti bianchi, ci sono prospettive future o resta un micro spazio di nicchia?

Paolo Silvestrini sale alla Punta Basei (1972)

Lo scialpinismo e il racconto: se si potesse misurare la capacità di fornire appoggio e materiale per l’arte narrativa penso che lo scialpinismo verrebbe nettamente superato dall’alpinismo. Quest’ultimo infatti, praticato a sufficienti livelli, è una vera fucina di situazioni tese e intense, spesso drammatiche, e come tale dà uno straordinario aiuto nel creare racconti, nel togliere di mezzo, anche brutalmente, convenzioni e luoghi comuni aprendo così la strada a temi esistenziali profondi e intriganti. E questo vale sia per il grande filone classico della narrativa autobiografica, là dove il fuoriclasse narra le sue imprese, sia nel più recente comparto del racconto di fiction, che sta bruciando le tappe con produzioni di grande interesse. Lo scialpinismo sta iniziando a fornire opere narrative interessanti, ma penso che ben difficilmente, per la sua natura intrinseca, potrà insidiare il primato dell’alpinismo.

Ampliamo il raggio dell’analisi, parliamo di come si è evoluto il modo di affrontare la montagna innevata. La prima riflessione che ti pongo riguarda la contrapposizione “sci di pista-scialpinismo”. Da un po’ di tempo in qua è cavalcata in termini ambientalisti: lo scialpinismo è green, invece la pista inquina ed è consumistica. Che idee hai su questo argomento?

E’ abitudine consolidata nel mondo scialpinistico parlare in termini non precisamente elogiativi dello sci di pista, immiserito da un’ossessiva e consumistica tecnologia e dall’ansia della prestazione. Certamente io per primo mi sento lontano da quest’ultima mentalità, ma allo stesso tempo penso che il discorso dei rapporti tra sci di pista e scialpinismo sia più complesso di quanto comunemente si pensa. Per motivi di spazio mi limito a un solo aspetto, evitando di scagliare anatemi e cercando di essere il più pragmatico possibile.

Se non esistesse lo sci di pista è chiaro che una parte dei suoi attuali praticanti passerebbe a un’attività diversa, per esempio allo scialpinismo o qualcosa di simile, e quest’ultimo si troverebbe di fronte a una pletora di praticanti che con ogni probabilità ne snaturerebbero l’essenza e lo spirito originari. E’ vero che lo sci di pista toglie spazio allo scialpinismo, ma è anche vero che addensa le moltitudini dello sci meccanizzato in spazi ben definiti intorno alle funi degli impianti. La conclusione è paradossale: lo sci di pista in quanto provvidenziale contenitore e recinto per la miriade dei suoi appassionati dà probabilmente un non trascurabile contributo a preservare lo spirito genuino e originario dello scialpinismo.

Poco sopra al rifugio Vaccarone verso la Rocca d’Ambin (1971)

Oltre che dagli sciatori che scendono lungo le piste, gli impianti sono oggi utilizzati in misura crescente dai cosiddetti free rider, ovvero quelli che scendono poi fuori pista. E’ un’alternativa o una concorrenza per lo scialpinismo vero e proprio?

Penso sia un’alternativa, che oltretutto, in analogia con lo sci di pista, ha il pregio di limitare i propri spazi in modo ragionevole.

Vi sono molte altre attività ibride fra tecnologia e discesa fuori pista. Tra questi l’eliski, che non scopriamo certo oggi, ma che sta crescendo a tassi incontrollati in alcune zone specifiche. Spesso lo scialpinista impreca quando sente il rumore delle pale: carovane di sciatori gli bruceranno la neve intonsa. In altri stati europei l’eliski è vietato o sensibilmente limitato. Secondo te andrebbe vietato anche da noi?

Abbiamo appena parlato della possibilità di relativa convivenza tra sci di pista e scialpinismo. Nel caso dell’eliski la cosa è diversa. Gli spazi che occupa sono potenzialmente molto vasti e soprattutto sono variabili in base alle condizioni del momento, quindi non prevedibili in anticipo da parte di si accinge a una salita con gli sci. Non solo, ma la sua pratica soffoca alla base lo spirito e l’essenza di una pacifica e non invasiva attività fisica come lo scialpinismo, che andrebbe invece incoraggiata. In altre parole le zone in cui si praticano lo scialpinismo e l’eliski non sono compatibili. Penso che l’eliski come minimo andrebbe seriamente regolamentato dall’autorità pubblica, limitandolo a ben definite zone, come già avviene in vari paesi alpini.

Quasi in vetta al Monte Zerbion (Valle d’Ayas/Valtournenche)

Le gare di scialpinismo, o meglio le gare così definite. Si tratta di un‘attività in piena esplosione, si parla addirittura di un prossimo coinvolgimento nelle olimpiadi invernali. Ma è “ancora” scialpinismo?

A partire dagli anni Sessanta iniziarono a diffondersi i rally scialpinistici, che in seguito in buona parte confluirono nelle competizioni vere e proprie, quelle che oggi attirano una miriade di praticanti. Con tutto il rispetto per chi pratica il cosiddetto scialpinismo agonistico, penso che chi segue con gli sci ai piedi un tracciato rigidamente prefissato e invece di guardare le punte delle montagne che gli stanno intorno preferisce guardare le punte dei suoi sci, si collochi fuori dallo scialpinismo. E’ sintomatico anche quello che si vede nelle pubblicazioni rivolte allo scialpinismo agonistico, dove compaiono lunghe serie di foto di facce contratte dallo sforzo (che personalmente trovo molto noiose) e ben poche immagini di vette e montagne.

In generale come vedi d’ora in avanti la possibile evoluzione del grande mondo dello sci?

Salendo alla Punta Valletta (Valle d’Aosta), 1969

Cerco di condensare la risposta nel minimo spazio possibile, considerando che le attività legate allo sci sono ormai numerose e caratterizzate da prospettive anche molto differenti. Sci estremo: era fondato su un continuo e stupefacente superamento dei limiti, ma una volta toccato quel limite fisico che la forza di gravità ha posto in un punto ben definito e invalicabile (o valicabile a costo della vita) era inevitabile che in buona misura perdesse la sua ragion d’essere. Sci ripido: qui il campo di azione è vastissimo e in buona parte ancora da esplorare. Guardavo tempo fa il versante della catena dei Re Magi che guarda sul vallone della Rho, cioè il versante di Bardonecchia (che tu stesso hai ottimamente descritto tempo addietro insieme con Paolo Montaldo): il numero di possibili canali e canalini, minuscoli lenzuoli e cenge ancora da scendere con gli sci è stupefacente. Quindi prospettive di sviluppo, naturalmente nei limiti di numeri che in assoluto rimarranno piccoli: si tratta pur sempre di un’attività di élite.

Sci di pista: gli anni Cinquanta e Sessanta, quelli della frenetica proliferazione di impianti, sono lontani, per una serie di motivi. Il motivo forse principale è legato ai recenti problemi di innevamento in congiunzione con quote e temperature: un recente studio, approfondito e documentato, parla senza mezzi termini di assenza di futuro per le stazioni la cui base non supera i 1500 metri di quota. E in effetti i ruderi di vecchie stazioni sciistiche a quote medio-basse sono ormai numerosi sulle montagne intorno a noi: potrebbe nascere, accanto all’archeologia industriale, una analoga branca rivolta proprio a questi residui del passato. E siamo allo scialpinismo classico. Numerosi indizi sembrano indicare, da qualche anno, una situazione tutto sommato stazionaria, per cui l’anziano che lascia viene sostituito dal nuovo adepto. La conclusione che ne traevo (se mi permetti di riportare quanto scrivevo tempo fa) era la seguente: “Situazione stazionaria, dunque. Ebbene, per una disciplina che da un lato è ormai pervenuta a una buona diffusione ma che, dall’altro lato, vive di spazi non troppo affollati, che ha sempre rifiutato d’istinto una certa mentalità del proselitismo forzato, dell’arruolamento ad ogni costo, non è forse questa – diciamocelo in tutta franchezza – la situazione più desiderabile?”.

Sulla Punta Valnera (Valle d’Ayas), 1976

In conclusione, permettici di entrare, seppur in punta di piedi, in una tua sfera un po’ più personale. Qual è la tua concezione di scialpinismo e come si è evoluta nel tempo?

E’ stato detto che l’alpinismo è una forma di conoscenza precisa, quasi millimetrica, della crosta terrestre. Anche se nello scialpinismo il morbido elemento intermedio della neve non ti permette quella conoscenza totale, ruvida e scabra, quella che ti lascia i segni sulle mani come nel caso dell’arrampicata, penso che anche quest’ultimo sia essenzialmente (e lo è sempre stato per me) un fatto di conoscenza. Ma questo fatto, prima o dopo, ti porta inevitabilmente a metterti su una strada particolare. E’ chiaro infatti che l’idea della conoscenza è in aperto conflitto con l’idea della ripetizione degli itinerari, e questo ti porta spesso a rinunciare alla gita che ti viene proposta dagli amici se tu quella gita la conosci già.
Conseguenza inevitabile: l’idea della conoscenza ti porta sempre più spesso a percorrere da solo i tuoi itinerari.

Un’altra scelta mi si parò davanti verso gli anni Settanta, quando alcuni miei amici passarono all’attività agonistica. Cosa fare: continuare con lo scialpinismo classico o passare a quello agonistico? Il primo consisteva per me, come già detto, nella ricerca del nuovo, nell’emozione ineffabile che ti prende quando spingi i tuoi sci tra le penombre di combe e canali dove gli sci non sono ancora mai passati. Nel caso dell’agonismo l’aspetto sostanziale consiste nel muovere i tuoi garretti più velocemente del tuo dirimpettaio. Ne conclusi che la prima delle due attività era per me immensamente più affascinante della seconda e continuai con lo scialpinismo classico.

Infine: secondo te qual è la più bella gita scialpinistica?

Parlando in generale si ha di fronte un panorama così vasto da rendere difficile una risposta puntuale. Parlando invece a livello personale il mio pensiero corre immediatamente all’inizio degli anni Sessanta. Ero alle mie prime gite con gli sci. Un martedì sera di marzo, nella sede dello Ski Club Torino, sento parlare della salita alla Punta Ramière, che già avevo ben presente. Torno a casa: per l’indomani previsioni meteo ottime, nessun impegno particolare all’Università. Poche ore di sonno e mi metto al volante in direzione della Val di Susa, alle prese con i nebbioni antelucani (allora le nebbie c’erano ancora). Poi la salita lungo l’interminabile valle di Thùres, la piramide terminale e infine il panorama infinito, in solitudine totale, nell’aria limpidissima e immobile. Mentre ritornavo all’auto, tallonato dalle prime ombre della sera, mi appariva chiaro che quella giornata segnava per me l’inizio di un legame indissolubile con l’alta montagna.


Dove non diversamente indicato le foto sono di R. Aruga


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