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Storia del Cai a puntate, il tramonto dell'alpinismo eroico

di Club Alpino Italiano

La fine dell'Ottocento è dominata da grandi cambiamenti anche per la storia di questa pratica. A raccontarci questi anni è Franco Brevini

Sopra: John Ruskin e william holman hunt (1894). foto frederick hollyer, LIfE (Wikimedia commons)


Il terzo appuntamento con la storia del Cai ci porta a rivivere la fine dell'Ottocento, quando anche nell'alpinismo sta tramontando un'epoca. A raccontarci la fine dell'alpinismo eroico è Franco Brevini:

"In rime e ritmi di Giosuè Carducci compare un’elegia in terzine intitolata Esequie della guida E. R. Durante uno dei suoi soggiorni a Courmayeur il vate della nuova Italia ebbe modo di assistere ai funerali di Emilio Rey, caduto nel 1895 al Dente del Gigante. «Via tra lo sdrucio de la nuvolaglia / erto, aguzzo, feroce si protende / e, mentre il ciel di sua minaccia taglia, // il Dente del Gigante al sol risplende».

La sua prima ascensione della cresta di Peutérey è definita nel volume sul Monte Bianco della Guida dei Monti d’Italia come «la più grande impresa alpina del secolo XIX». Venne portata a termine nell’estate del 1893 dalla guida di Courmayeur, insieme a Paul Güssfeldt, Christian Klucker e César Ollier. La memorabile salita conclude il decennio, che si era inaugurato con una serie di brillanti prime invernali dei Sella, fra cui la Punta Dufour, il Gran Paradiso e il Lyskamm.

«Questi Sella – ha scritto Massimo Mila, musicologo e appassionato alpnista – furono tutti, chi più chi meno, formidabili specialisti dell’alpinismo invernale». Fu forse una tardiva revanche del nostro alpinismo nei confroti degli inglesi pigliatutto. Ma certo è che la scalata delle grandi montagne nella stagione meno favorevole segna un passo in avanti nello svolgimento dell’alpinismo, che già con Edward Whymper, con Leslie Stephen e con Frederick Mummery aveva imboccato la mainstream sportiva. Nel 1871 erano usciti Scrambles amongst the Alps del conquistatore del CervinoEdward Whymper, e The Playground of Europe del padre di Virginia Woolf, mentre nel 1895 Mummery, il più temerario scalatore della sua generazione, avrebbe chiuso la sua epoca con My Climb in the Alps and Caucasus.

La parabola che si compie in questi anni di rapido miglioramento delle tecniche di arrampicata è ironicamente riassunta dallo scalatore inglese: «È stato spesso notato che tutte le montagne sembrano destinate a passare attraverso i tre stadi: un picco inaccessibile, la scalata più difficile delle Alpi, una giornata di relax per una signora». Ma il libro di Mummery e, fino dal 1892, Travels Amongst the Great Andes of the Equator di Whymper documentano anche un altro snodo della storia dell’alpinsimo: l’affacciarsi dei maggiori scalatori dell’epoca alle montagne extra-europee. E sarà proprio sul Nanga Parbat che scomparirà Mummery nel 1895, nel tentativo del tutto anacronistico di aggiudicarsi il primo ottomila himalayano.

Gli anni Ottanta dell’Ottocento segnano l’estremo congedo dall’alpinismo eroico e sportivo del XIX secolo. Nel 1888 John Ruskin si reca per l’ultima volta a Chamonix. L’autore dei Modern Painters, che aveva condannato come funamboli profanatori gli alpinisti impegnati a scalare quelle che lui stesso aveva devotamente definito le «cattedrali della terra», si trovava di fronte ai primi segnali di un’invasione di massa della montagna. Il turismo alpino stava presentando il conto e fra le vette avevano fatto la loro comparsa le prime tracce di inquinamento. Ruskin: «La società moderna, poi, va in montagna non per digiunare, ma per festeggiare, e, abbandonando i ghiacciai, li lascia coperti di ossa di pollo e gusci d’uovo».

L’allargamento sociale di una pratica come l’alpinismo, fino ad allora appannaggio dell’aristocrazia, costituiva un dato di fatto talmente incontrovertibile, da suscitare le inquietudini degli stessi austeri soci del primo Alpine Club, che deploravano la “cockneyzzazione” delle vette: dai ventotto membri fondatori del 1857 si era passati nel 1890 a cinquecento soci. The Playground of Europe di Leslie Stephen risuona di deprecazioni contro il nuovo turismo dozzinale che si affaccia sulle Alpi. Il riflesso letterario di tutto ciò sarà la satira del borghese, figura per definizione anti-eroica, che si lancia con incauto donchisciottismo alla conquista delle «dentate, scintillanti vette» carducciane.

Nel 1885 venne pubblicato Tartarin sur les Alpes di Alphonse Daudet, mentre nella cultura italiana il libro più significativo è Alpinisti ciabattonidello scapigliato Giovanni Cagna, che risale al 1888. Ma entrambi questi testi avevano avuto un precedente teatrale nella commedia Le Voyage de Monsieur Perrichon di Eugène Labiche e Édouard Martin, rappresentata il 10 settembre 1860 al Théâtre du Gymnase di Parigi. In tutti e tre i casi tranquilli commercianti, provinciali spacconi, droghieri con la mania della villeggiatura alpina si ritrovano trascinati in comiche peripezie nel cuore di scenari per loro troppo avventurosi. Il sublime era disceso fino ai libri mastri e alla partita doppia e, trapiantato in atmosfere inusitate, l’eroico strideva comicamente con il prosaico. Intanto gli scalatori avevano alzato il tiro.

Negli anni Ottanta-Novanta dell’Ottocento la cresta di Furggen rappresenta il grande problema del Cervino. È l’ultima delle creste della montagna a non essere stata salita. Nel 1880 ci avevano provato. Perfino Mummery e Burgener, ma avevano dovuto ripiegare. «Very formidable» era stata la definizione che l’inglese aveva fornito degli strapiombi della Testa.

Nel 1890 lo scrittore Guido Rey compie ben tre tentativi nello spazio di una settimana. È un vero e proprio assedio, con nottate di bivacco al Colle o lungo la cresta di Furggen, che oppone ogni sorta di difficoltà, compresa una vera e propria pioggia di pietre durata tre ore. Scrive nel Monte Cervino: «Narrai allora le avventure ma celai le emozioni, ché mi parve troppo grave il dirle; ero sceso spos-sato, ferito; credetti sedato per sempre il desiderio e stampai sulla Rivista del Club Alpino un’assennata dichiarazione per convincere altri e me stesso della follia del tentativo, ove, con una frase che mi parve ben trovata, dicevo che “finalmente la ragione aveva in me ripreso il sopravvento sulla passione” e soggiungeva che “né io né le mie guide avremmo mai ritentato la prova”».

In realtà Rey non si darà pace e del suo Cervino-Moby Dick, che resiste a ogni tentativo, avrà finalmente ragione nel 1899. Lui così cosmopolita, così amante dei fair means anglosassoni, per una volta mise da parte Mummery e decise che su quella cresta si doveva salire, costi quel che costi.

In quegli anni l’arrampicata stava compiendo progressi impetuosi e basta scorrere la lista delle prime dolomitiche dell’epoca per averne una conferma: 1886 Cima della Madonna nelle Pale di San Martino, 1887 Torre Winkler, 1888 Torre Innerkofler, 1890 Cinque Dita, 1892 Torre Stabeler, 1894 Dent de Mesdì. Il simbolo di questa temeraria stagione fu Georg Winkler, il ragazzino di Monaco definito la Meteora, per la prodigiosa brevità della sua carriera. Quell’adolescente, che sarebbe caduto al Weisshorn, salì la Cima della Madonna e firmò il suo capolavoro con la scalata solitaria della torre nord-est del Vajolet, che avrebbe preso il suo nome. Fu tra i primi a sostituire gli scarponi chiodati con pedule di tela e suole di canapa. Si servì anche di una corda cui era fissato un uncino, che lanciava sopra di sé nei passaggi più difficili. Un metodo discutibile, che però testimonia un nuovo funambolico ardimento, destinato a cancellare da molte pareti la parola impossibile".


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