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Storia del Cai a puntate, la nascita dopo l'Unità d'Italia

di Club Alpino Italiano

In un momento come questo, dominato dalla crisi epidemiologica del Covid-19, il passato può aiutarci a guardare con più chiarezza al presente. Oggi parliamo della fondazione.

In questi giorni complicati, riscopriamo il piacere della lettura, ritornando alle pagine di storia del Club Alpino Italiano. Il Cai è nato nel 1863 e ha accompagnato le trasformazioni del nostro paese, attraversando i diversi momenti felici e difficili della nostra storia unitaria. In un momento come questo, dominato dalla crisi epidemiologica del Covid-19, il passato può aiutarci a guardare con più chiarezza al presente. Ripartiamo dunque dall'inizio, da quel 1863. Facciamolo rileggendo a partire da oggi una serie di articoli di scritti per Montagne360. Per la prima puntata ospitiamo il lavoro di Enrico Camanni

"Gli anni ’60 dell’Ottocento si aprono con l’Unità d’Italia e, per gli alpinisti, proseguono con la fondazione del Club Alpino. Non sono affatto due nascite separate, al contrario. Mai come allora politica e montagna, affari di stato e passioni di vetta si sfiorano, s’incrociano, si completano. Nel 1861, dopo decenni di guerre, utopie, alleanze, fallimenti e ripartenze, arriva l’Unità d’Italia.

Perché l’Italia? Che c’entra la Liguria con la Calabria? E la Romagna con la Puglia? Il legame italiano è fisicamente incarnato dalla spina dorsale appenninica, uno scheletro geologico capace di tenere insieme la testa e i piedi dello stivale, circa 1300 chilometri di montagne che uniscono da sempre il nord, il centro e il sud della penisola. Per le Alpi occidentali, al contrario, l’Unità d’Italia significa frattura e divisione, perché nel 1860 Cavour cede Nizza e la Savoia ai francesi in cambio di aiuto diplomatico e militare. Tutti abbiamo studiato la formuletta sui libri di scuola, giocando a Risiko con le mappe post risorgimentali: a loro le terre che stavano di là delle Alpi, a noi quelle che sono di qua. Ci è sembrato “naturale” che lo spartiacque alpino separasse finalmente i due versanti per destinare a ogni stato i ghiacciai, i pascoli, le valli, i fiumi e le città che gli spettavano.

Sbagliavamo: la natura non c’entrava affatto. L’idea dello spartiacque alpino era forse 'naturale' per i politici e i generali che l’avevano inventata per de-limitare e difendere gli stati nazionali, certo non per i pastori e i viaggiatori che attraversavano i valichi, e neppure per le città di Torino e Chambéry che da secoli si scam-biavano gli onori e gli oneri della ca-pitale del Regno. Le Alpi Graie erano al centro del Regno di Sardegna e le alte cime del Monte Bianco, delle Levanne, della Ciamarella e del Rocciamelone non costituivano linea di frontiera. Le creste separavano i due versanti, non le cul-ture e le appartenenze delle persone. Anche la storia dell’alpinismo si è spesso confusa: per esempio il Monte Bianco non l’hanno scalato i francesi, ma due sudditi del Regno SardoPaccard e Balmat. Il dottor Paccard si era laureato all’Università di Torino ed era tornato a Chamonix senza attraversare nessuna dogana. Allo stesso modo non espatriavano i viandanti e i pellegrini che scavalcavano il Moncenisio, i commercianti che superavano il Piccolo San Bernardo, i pastori che inseguivano l’erba buona oltre il crinale o il giovane che si recava a cercar moglie e fortuna dietro la montagna di casa.

Tutto cambia nel 1860-1861, quando i piemontesi cominciano a pensare che dietro le Alpi abiti lo straniero. Le cime diventano simbolo di patria e Quintino Sella, più volte ministro del Regno d’Italia, si adopera per scalare il Monviso nel 1863 e strappare il Cervino agli inglesi nel 1865, senza successo. Le montagne non sono più semplici pezzi di roccia che toccano il cielo, ma sentinelle della nazione. Conquistare una cresta equivale in qualche modo a “rifare” l’Italia, o quantomeno a sigillarne i confini. «Gli abitanti del Nord riconoscono nella razza latina molto gusto per le arti, ma le rimproverano di averne pochissimo per la natura – scrive Quintino Sella a Bartolomeo Gastaldi dopo la salita del Monviso, a fine estate 1863. Però da alcuni anni v'ha grande progresso... Ei mi pare che non ci debba voler molto per indurre i nostri giovani, che seppero d’un tratto passare dalle mollezze del lusso alla vita del soldato, a dar piglio al bastone ferrato, ed a procurarsi la maschia soddisfazione di solcare in varie direzioni e sino alle più alte cime queste meravigliose Alpi, che ogni popolo ci invidia».

Inizia la storia del Club Alpino Italiano, fondato al castello del Valentino di Torino il 23 ottobre 1863. Una quarantina di soci riuniti in assemblea approva lo statuto e vota il primo consiglio di direzione. Tra i fondatori ci sono alcuni deputati del Regno e un «piccolo mondo cittadino di personaggi autorevoli, gentiluomini, studiosi, professionisti, benestanti, che – osserva Massimo Mila nella sua storia dell’alpinismo italiano – evadevano dalle costrizioni della vita di città percorrendo le Alpi, per lo più col pretesto di compiere studi geologici... ».

Il Monviso è solo l’anticamera della vera sfida con i britannici: il Cervino, la cima più ambita. Il 14 luglio 1865, festa della Bastiglia, in una camera dell’albergo Giomein galleggiante sui pascoli in fiore del Breuil l’ingegner Felice Giordano scrive a Sella: «Caro Quintino, oggi alle 2 pom. con un buon cannocchiale vidi Carrel e soci sull’estrema vetta del Cervino; con me li videro molti altri; dunque il successo pare certo, e ciò, malgrado vi sia stato ier l’altro un giorno di pessimo tempo che coprì il monte di neve. Parti dunque subito, se puoi».

La calligrafia disordinata e lo stile passionale tradiscono il rigore scientifico del Giordano. Non è il freddo esecutore di una missione politica l’uomo che affida alle lunghe gambe dell’abbé Gorret il dispaccio per il fondatore del Club Alpino Italiano: è il capo di una congiura, l’istigatore di un drappello ribelle.

Togliere la Becca allo straniero Edward Whymper equivale alla scacciata degli austriaci! Il 15 luglio, il giorno dopo, allo stesso tavolo dell’albergo Giomein: «Caro Quintino, ieri fu una cattiva giornata e Whymper finì per spuntarla contro l’infelice Carrel». Come mai è bastata una notte per scivolare dall’ebbrezza alla depressione? È successo che i puntini stagliati sulla cresta sommitale della Gran Becca non erano le sagome della guida Jean-Antoine Carrel e compagni, saliti dalla Cresta del Leone per onorare la Valle d’Aosta e l’Italia, ma le silhouette di tre guide straniere e di quattro alpi-nisti guidati da Whymper.

Il povero Carrel aveva dovuto arrendersi poco oltre il Pic Tyndall. A un passo dalla cima, come in ogni gara che si rispetti. La trama del romanzo prevede un finale drammatico e ammonitore: Whymper, il giovane d’oltre Manica che arrampica per orgoglio e piacere, va in qualche modo punito. La punizione supera ogni misura, con la morte di quattro compagni sulla via del ritorno: Hudson, Hadow, Douglas e Croz.

I tre britannici e la guida di Chamonix precipitano negli abissi della parete nord e Whymper è accusato di avere tagliato la corda... Intanto Carrel ritorna sul Cervino due giorni dopo e il 17 luglio 1865 raggiun-ge finalmente la cima dal versante italiano. È come una vittoria, o quasi. I veri vincitori? Saranno gli albergatori di Zermatt e della futura Cervinia"


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