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Il CAI non ci lascia soli

di Mauro Brusa

In questo momento così difficile per tutta la Nazione anche il CAI nel suo piccolo (che piccolo non è!) fa la sua parte. Grazie alla fattiva collaborazione di Unipol SAI, l'impresa che garantisce i servizi assicurativi per i Soci, la scadenza per il rinnovo dell'associazione è stata prorogata dal 31 marzo al 30 aprile, per allungare il periodo di validità delle nostre polizze. Il fatto di essere comunque sempre assicurati non deve fare dimenticare le elementari regole di buon senso, più volte richiamate dalle Autorità e dal nostro Presidente Generale: non uscire di casa se non per acquistare generi di prima necessità e, per un po', rinunciare alle nostre escursioni: le montagne non scappano e se non ci andiamo la prossima settimana ci andremo il prossimo mese!

Possiamo approfittare del tempo di inattività forzata per dedicarci a quelle faccende domestiche fin qui trascurate a causa della routine quotidiana. E se siete persone metodiche, per cui le fotografie delle vostre gite sono già perfettamente ordinate, una di esse potrebbe essere la lettura (o rilettura) di qualche bel libro di montagna, e non solo.
Qualche suggerimento? Eccoli, con un piccolo assaggio e con un sorriso di ottimismo.

• Mario Rigoni Stern, “Storia di Tönle”, Einaudi
«Dal margine del bosco, guardingo come un animale selvatico che aspetta l'imbrunire per uscire allo scoperto, guardava la sua contrada, e il paese laggiù, dentro lo slargo dei prati. Il fumo odoroso della legna si scioglieva nel cielo rosa e violetto dove le cornacchie volavano a gruppi, chiamandosi. La sua casa aveva un albero sul tetto: un ciliegio selvaggio. Il nocciolo dal quale era nato l'aveva posato lassù un tordo tassello tanti anni prima espellendolo in volo e l'umore di una primavera l'aveva fatto germogliare perché un suo avo, per difendere l'abitazione  dalla pioggia e dalle nevi, aveva steso sopra la copertura altra paglia , sicché quella sotto era diventata humus e quasi zolla. Così il ciliegio era cresciuto».

• Laura Mancinelli, “I dodici abati di Challant”, Einaudi
«L'uomo che saliva a cavallo tra i boschi verso il castello di Challant mostrava di conoscere bene i sentieri perché li trovava senza alcuna difficoltà pur sotto la spessa coltre di neve dell'inverno precoce che aveva coperto tutta la vallata. [...] Il suo nome era Venafro. Ma forse non era il vero nome. Nessuno sapeva nulla di lui, se non che la sua origine doveva avere qualcosa a che vedere con la bellissima e leggendaria Isabella d'Aquitania, che mai tuttavia aveva soggiornato in quei monti, pur essendo non lontanamente imparentata con i marchesi di Challant».

• Eugen Guido Lammer, “Fontana di Giovinezza”, Vivalda
«O gioventù del nostro tempo, un uomo in barba bianca, rimasto giovane, ti saluta. Per voi che cercate, suona la mia parola, per voi che dalla contronatura degli anfratti bui dei vicoli cittadini, dal vapore molliccio e attossicato dei bassifondi fate ressa per sollevarvi a ciò che è eternamente puro, nell'aria aspra delle altezze; suona per voi che provate ripugnanza e rifuggite da tutti gli agi ottusi nei quali le anime plebee trovano appagamento».

• Claudio Marcato, “L'Onore di Pietra”, Piemonte in Bancarella
«Era l'alba del 20 luglio 1747. Sull'Assietta, uno dei tanti colli dello spartiacque tra la Dora e il Chisone, i soldati piemontesi e austriaci cominciarono con lentezza ad uscire dalle tende del campo, quasi titubanti, timorosi di qualcosa o qualcuno. [...] Proprio sulla “butta”, sul ciglio del muro di pietre devastato dal cannone nemico, un Caporale piemontese del Reggimento di Guardia faceva compagnia ai suoi uomini, comandati di sentinella, che erano rimasti a vegliare, osservare, riflettere per l'intera notte. [...] Aveva più o meno trent'anni e, a dispetto dell'età e del grado che portava, vestiva l'uniforme da meno di un anno. I suoi uomini erano stati addestrati da lui e lo rispettavano come si rispetta un fratello maggiore, anzi solevano dire che quel caporale era nato così, con i galloni cuciti sulla pelle prima che sul giustacorpo».

• Giusto Gervasutti, “Scalate nelle Alpi”, Vivalda
«Molte volte mi sono chiesto come sia nata la mia passione per le grandi montagne, ma è un po' come se cercassi di ricordarmi quando ho imparato a nuotare. Mi sembra di esserne sempre stato capace. Quando un individuo inizia una qualunque attività , esiste quasi sempre un fatto determinato, casuale o voluto, che ve lo spinge. Nel mio caso particolare, invece, non sono mai riuscito a localizzare questo fatto per ciò che riguarda l'inizio di questa passione, che dovrà avere un'importanza non lieve su tutta la mia vita [...] Giochi magnifici dell'infanzia, si sa, dove il torrente e la cascata assumono proporzioni immaginarie e il bosco e la caverna sono teatro di imprese meravigliose e le storie, che il vecchio tagliatore di abeti narra sotto la cappa fumosa del camino friulano, turbinano e creano a loro volta altri sogni più immaginari».

• Riccardo Cassin, “Capocordata”, Vivalda
«Escludo che, raccontandovi della mia prima arrampicata vi venga voglia di imitarmi. Il nostro gruppo aveva appena comprato una corda di cotone da dodici millimetri lunga una cinquantina di metri e, per battezzarla, si scelse la Guglia Angelina. Era la primavera del 1929. [...] Cinquanta metri di corda per sette od otto persone non sono sufficienti, né è prudente legarsi in così grossa ciurma: ma sono apprezzamenti che faccio adesso. A quel tempo, come dicevo, non c'erano maestri: c'erano solo cinquanta metri di fune e un gruppo di giovani scalpitanti per il desiderio di cimentarsi con la roccia. In quanto al resto, comandi, commenti, improperi, consigli si sovrapponevano, e non era un cinguettio di rondini».

• Mario Rigoni Stern, “Il Sergente nella neve”, Einaudi
«Ma esiste ancora l'erba verde? Esiste il verde? E poi dormo; dormo, dormo. Senza sognare nulla. Come una pietra sotto l'acqua. Quando la donna russa mi sveglia è tardi, mi ha lasciato dormire mezz'ora in più. In fretta lego la coperta allo zaino, rimetto in tasca le bombe a mano e in testa l'elmetto. Quando sono pronto per uscire la donna mi porge una tazza di latte caldo. Latte come quello che si beve nelle malghe all'estate; o che si mangia con la polenta nelle sere di gennaio. Non gallette e scatolette, non brodo gelato, non pagnotte ghiacciate, non vino vetroso per il freddo. Latte.
E questa non è più naja in Russia, ma vacche odorose di latte, pascoli in fiore tra boschi d'abete, cucine calde nelle sere di gennaio. [...] La tazza di latte fuma nelle mie mani, il vapore sale per il naso e va nel sangue. Bevo. Restituisco la tazza vuota alla donna dicendo “Spaziba”».

Ho scelto non a caso due citazioni di Mario Rigoni Stern per aprire e chiudere questa breve panoramica, perché in entrambe vi è racchiuso un messaggio di speranza.
Il ciliegio che cresce sul tetto della malga rappresenta la vita che non si arrende, neppure nelle circostanze più avverse; mentre la tazza di latte caldo - in un'altra circostanza fu una pagnottina appena sfornata - ci dice che anche in mezzo all'orrore (siamo durante la tragica ritirata di Russia) può baluginare uno sprazzo di umanità che ci dà la forza di tirare avanti.

E adesso facciamo un gioco, “interattivo”, come si usa dire adesso: scegliete anche voi dei passi che ritenete particolarmente significativi, magari commentateli, e poi mandatemeli (montievalli@caitorino.it) per incrementare questa piccola, nostra antologia.

Un abbraccio (da due metri...) a tutti.
Il Vostro Direttore Responsabile


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