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Recit d’ascension al TFR

di Ezio Mentigazzi

Ascensione dell’Arête du Moine all’Aiguille Verte

In ricordo di Ezio Mentigazzi e Arnaldo Caroni

Settembre è il mese in cui inevitabilmente nei nostri pensieri torna il ricordo di Ezio Mentigazzi, scomparso nel settembre del 1995 durante un’escursione solitaria in Val Sesia. Ezio è stato Presidente della Sezione di Torino del CAI, ma per tutti noi della SUCAI è stato soprattutto un importante istruttore della Scuola di scialpinismo.

“Mentighezio” era uno degli istruttori storici, uno che ha lasciato un’impronta indelebile, anche perché aveva una visione completa della montagna. Infatti oltre a innumerevoli gite con gli sci, Ezio vantava una significativa attività estiva di grandes courses d’alta quota. Ascensioni non estreme, ma rognose, complicate, irte di vicessitudini a ogni passo, dove il “mestiere” della montagna conta più di qualsiasi altra cosa.


L'Aiguille Verte, con al centro l'Arête du Moine, vista dalla Grandes Jorasses


Per ricordarlo con affetto riproponiamo un suo articolo, pubblicato su Scandere 1993, relativo alla salita dell’Arête du Moine all’Aiguille Verte. I due protagonisti del racconto, Oiez e Narodla, corrispondono a Ezio (Mentigazzi) ed Arnaldo (Caroni), quel giorno legati in cordata come in molte altre occasioni.

Anche Arnaldo Caroni è stato un importante istruttore della Scuola SUCAI e, come Ezio, ci ha lasciati durante un’uscita solitaria. Strano destino, quello che li ha accomunati. Ma a noi piace ricordarli sorridenti e determinati, come li abbiamo conosciuti in mille comuni giornate di montagna. (Carlo Crovella)


Ezio Mentigazzi (sopra, foto di L. Ratto) e Arnaldo Caroni (sotto, foto di C. Fornaca)


Recit d’ascension al TFR
(da "Scàndere 1993")

Buio pesto, notte; le quattro del mattino in quel Paese che adotta l’ora legale, in effetti le tre, ora solare, poche stelle, stranamente, dopo quindici giorni di bel tempo fisso, di alta pressione e con previsioni meteorologiche rassicuranti per altri tre o quattro giorni; anche un po’ caldo, e un po’ di umidità nell’aria, contrastanti, data l’ora, con la situazione attesa.

Il buio era ancor più buio, brumoso, nerastro proprio sulla vetta, coperta ed invisibile, della grande montagna verso cui erano diretti; fortunatamente l’altra grande montagna di lato, più verso sud, famosa per i suoi mille metri di strapiombi, speroni, canali e scivoli delle sue «nord», era ben visibile nei suoi contorni, totalmente libera da brume e nebbie, invece, più preoccupante, la più alta vetta del gruppo, alle spalle, qualche chilometro verso ovest, aveva la vetta totalmente coperta di fitte nuvole.

Narodla e Oiez avevano da poco lasciato il rifugio, erano ancora sulle tracce del sentiero che porta al ghiacciaio e camminavano come si cammina a quell’ora, quando l’apparato fisico-mentale non è ancora del tutto sveglio e sciolto; ai piedi grossi scarponi, già in plastica, ma pur sempre piuttosto rigidi e pesanti; d’altra parte calzature più leggere e scarpette da arrampicata nel sacco, pronte all’uso, non facevano parte delle loro esperienze ed abitudini maturate negli anni, erano ancora di là da venire per la loro mentalità e ritenute certamente inadatte a quel tipo di salita. Salivano facendo riferimento alle piccole luci delle pile frontali di altre due coppie che li precedevano di un centinaio di metri, in quanto era la loro prima salita in quella zona, ed il giorno precedente non avevano avuto il tempo di effettuare la solita raccomandabile ricognizione. Una coppia, la più vicina, era costituita da loro connazionali, combinazioni della vita; l’altra, più avanti, da una guida locale con cliente; erano dirette, per quanto sentito dal gestore del rifugio la sera precedente, alla loro stessa montagna, quindi tutto «quadrava».

Nella mente di Oiez passavano, come spesso succede in questi tipi di apertura di giornata, dubbi e interrogativi più o meno nitidi, più o meno importanti, più o meno incidenti su motivazioni e determinazioni, utili comunque a far trascorrere il tempo. Che fine avevano fatto tutti gli altri numerosi ospiti indigenti del rifugio? Evidentemente erano ancora tutti a< dormire, forse sarebbero andati a «fare» (brutto termine, ma si è imposto comunque nel linguaggio alpinistico) una guglia più vicina al rifugio, più tecnica, forse più da «scarpette», certamente più breve e meno massacrante sul piano dell’impegno complessivo di durata, fatica e pericolosità oggettiva. Forse tutti questi altri si sarebbero divertiti di più, forse questo era lo sbocco più giusto dell’attività a cui avrebbe dovuto mirare e prepararsi, anche tecnicamente, in tutta la sua lunga storia alpinistica, invece di continuare a preferenziare gitoni e possibilmente alte quote.

Realizzava, in qualche modo, che era meno determinato della vigilia. Aveva «sognato» per lunghe stagioni questa montagna, ma, come spesso capita, era mai riuscito a concretizzare preparativi per «farla». Ora c’era, ma gli anni erano passati; le prestazioni fisiche erano cambiate, non scadute, però più simili a quelle di un mulo da soma che a quelle di un camoscio. Ardori, entusiasmi e obiettivi a senso unico dei venti e trent’anni erano di molto stemperati; altre cose della vita comune si erano, giustamente, imposte. E poi c’era il discorso dell’allenamento e preparazione, che il compagno Narodla faceva suo spesso e con ragione.

Sarebbero risultati sufficienti, sotto questo aspetto, una stagione scialpinistica piena, ma ormai trascorsa da qualche mese, e cinque giorni di camminate nelle Dolomiti, sia pure con una salita alla Civetta, ma solo per una via ferrata, quella degli Alleghesi? Per di più erano stati giorni interrotti da precipitoso ritorno in città, sotto temporali battenti, prima a piedi e poi per tutto il viaggio in auto, di notte, con l’affanno dei sensi e dei sentimenti per arrivare all’ultimo momento in tempo per vedere l’anziana mamma per l’ultima volta ancora in vita, dopo che si era subitaneamente ed improvvisamente aggravata proprio durante la sua assenza. Anche per questo le motivazioni di Oiez, quelle di ordine psicologico ed intimo, risfoderate e ricercate a tutti i costi per trovarsi lì in quel momento, risultavano ora meno evidenti, meno erte, ripensandole.

Il tempo, quello cronologico, continuava a trascorrere, quello atmosferico a non variare, quindi né bello, né brutto, tutto possibile e Oiez continuava a camminare e pensare; ogni tanto con qualche passo disequilibrato, magari all’indietro, a causa di ghiaia e sassi non inchiodati e fermati al loro posto dagli appoggi degli scarponi totalmente sbagliati a causa del buio e del sonno. Un baleno di pensiero tornò alle camminate ed alla evoluzione che la modernità, quella che si vuole a tutti i costi, avrebbe portato a questo concetto. Sorrideva fra sé e sé; già, le camminate sarebbero diventate «trekking», «escursionismo», e via discorrendo e sarebbero nate scuole e specifiche iniziative per queste discipline. Si sarebbe finalmente insegnato all’uomo ciò che l’uomo sa già fare, naturalmente, da centomila anni o giù di lì; evviva l’odierna e presuntuosa modernità che non si accorge che variare nomi e terminologie non è sufficiente a scongiurare il rischio di riscoprire l’acqua calda.


A sx l'Arête du Moine, a dx il Couloir Whymper


Narodla, più giovane e più atletico, procedeva, e precedeva, con passo ormai sicuro e costante. Oiez seguiva e stava gradualmente conseguendo anch’egli sicurezza e costanza nel passo, nelle idee un po’ meno, sino a che realizzò una soluzione salomonica. In realtà, come sempre, nessuna soluzione, ma totale apertura a qualsiasi compromesso fra la decisione e l’indecisione, fra il proseguire ed il fermarsi e rinunciare. Pensò che se il tempo atmosferico restava tale, in effetti sulla vetta della loro meta le brume stavano sfilacciandosi e sembravano meno compatte, poteva proseguire. A quell’andatura di riserve se ne sentiva ancora molte, se sufficienti fino alla vetta e ritorno l’avrebbe stabilito poi, più in alto. Se le luci che li precedevano proseguivano il gioco era fatto, si sarebbero quantomeno risparmiati l’impegno di ricerca e mantenimento della «via», notoriamente un po’ labirintica e complicata, visto che fra quelle «luci» c’era quella di una guida locale. Se, ancora, all’apparire del sole si fosse fatto un po’ caldo e fosse sparita l’umidità avrebbe proceduto ancor meglio.

Mentre passava in rassegna questi «se» Oiez andò a sbattere contro Narodla, che si era improvvisamente fermato; erano al ghiacciaio, bisognava calzare i ramponi e legarsi in cordata. Ciò fecero e ripartirono, ma nel frattempo, la cordata dei loro connazionali era sparita verso la loro sinistra, verso conoidi e canalastri di attacco alla cresta, in un punto che pareva loro ancora troppo in basso rispetto a quello giusto e proseguirono diritti, sul ghiacciaio, superando qualche pancia ed aggirando qualche crepaccio, riferendosi sempre alla lontana lucina della «guida», molto più avanti e cercando le minuscole tracce di ramponate sulla neve dura del ghiacciaio stesso.

Dopo un bel po’ persero le tracce delle ramponate, la lucina scomparve del tutto e tutte le ricerche, dopo un paio di risalite e ridiscese di una gobba di un crepaccio, risultarono vane. Narodla non era convinto, a quel punto, di essere ancora sul giusto percorso; d’altra parte la cordata della guida sin lì era certamente arrivata, ed una guida locale i punti d’attacco si presume li conosca bene; ma l’altimetro diceva incontestabilmente che si era un centocinquanta metri più alti del punto indicato dall’altra guida, quella scritta, che Narodla aveva attentamente letto il giorno precedente. Decisero, per questo caso, di preferenziare lo scritto al vissuto, e ridiscesero. Scoprirono poi che la guida locale, rilevando le brume sfilacciate che avvolgevano la vetta, aveva optato per il cattivo tempo e di conseguenza portato a spasso il cliente per il ghiacciaio, tanto per fargli gustare qualcosa prima di riaccompagnarlo al rifugio, perciò: «mai fidarsi!».

Narodla e Oiez, altimetro alla mano, scesero alla quota indicata come punto d’attacco e a conferma di averlo finalmente trovato, ormai con la luce del giorno arrivata, scorsero la cordata dei connazionali sul vertice di una conoide di neve, ghiaccio e massi e pietrisco, letteralmente «brutta» a vedersi, che si insinuava nel versante roccioso della cresta di salita.

Un contatto alla voce e la conferma dai connazionali che il punto era quello; che l’avevano raggiunto dopo traversi di canali e costole affatto simpatici ai piedi delle pareti, avendo «attaccato» troppo in basso; che la guida col cliente era ben visibile da dove si trovavano e stava «gironzolando» sul ghiacciaio. I nostri, ramponi ai piedi, raggiunsero l’altra cordata, abbastanza velocemente, con qualche metro delicato su una crestina-cornice ghiacciata appoggiata ad una liscia lastronata granitica quasi verticale e ricoperta della classica sabbia e pietrisco fine, indice di passate ricoperture nevoso-glaciali e di più recenti, nonché preoccupanti, scariche dall’alto.


Sull'Arête du Moine


Erano rimasti in due cordate; l’intera grande montagna a disposizione di sole quattro persone; stava sorgendo il sole ed era caldo; brume e nebbie si dissolvevano; restava coperta soltanto la vetta più alta del gruppo, ma lei sola, e molto lontana. Mentre si toglieva i ramponi, operazione sollecitata dall’amichevole ed ormai abitudinario «fai presto che la gita è lunga» di Narodla, Oiez dimenticava tutti i precedenti «se» e scioglieva mentalmente tutte le riserve circa il proseguire; intanto l’altra cordata era partita ed il suo compagno la tallonava. Subito, fatti pochi passi, un muretto verticale di granito di un paio di metri da superare nel fondo di un canale-camino corredato dal rituale antipatico rivoletto d’acqua, e ricoperto dell’altrettanto antipatica polvere grigio-biancastra, imponeva ad Oiez un inatteso benvenuto e qualche considerazione su questi anonimi tratti. Nascosti in versanti rotti e tormentati, dove parlare di «vie» e/o di «difficoltà tecniche» suonerebbe ridicolo a qualificati e titolati alpinisti, risultano sorprendentemente difficili e delicati, anche se brevi, e per niente consoni alle descrizioni che li liquidano solitamente con la frase: «per saltini rocciosi rotti e discontinui raccordare a zig-zag alcune cenge rocciose-detritiche salendo verso il filo di cresta senza particolari difficoltà!».

Usciti dal passaggio, e salite con una «esse» un paio di larghe cenge, Nerodla ed Oiez, molto vicini e corda in mano per non farsi cadere pietre addosso, ad un paio di tiri di corda di distanza dalla cordata che li precedeva, imboccarono e salirono un lungo canale terroso-roccioso ascendente diagonalmente da sinistra a destra verso la cresta; superando alcuni tratti più stretti a camino, con roccia piuttosto marcia, sgradevole sorpresa per quel gruppo, e con rivoletti d’acqua e qualche ghiacciolo pensile, anche grande, qua e là, ad abbellire, ma anche a minacciare se fosse caduto, il tutto. Di neve sul fondo e di roccia solida, di classico misto, di uso dei ramponi, come descritto nelle relazioni, neppure l’ombra, e la quota, già sui 3600/3700 metri, avrebbe invece fatto pensare ad una conferma delle relazioni stesse; insomma, il terreno ricordava più le Dolomiti che i grandi gruppi delle Occidentali, soltanto l’ambiente manteneva le promesse.

All’uscita del lungo canale, ancora sotto cresta, soprastante una strettoia a camino, c’era il classico ripianetto di pietre instabili, coperto qua e là da una cascata di ghiaccio e ghiaccioli in via di fusione per l’effetto del sole, e la prima cordata lo stava oltrepassando mentre Narodla vi stava approdando ed Oiez era impegnato nel camino stesso cercando qualche appoggio sul terriccio fangoso onnipresente. Ad un tratto arrivò l’allarme, per certi versi consueto, ma sempre agghiacciante, dalla prima cordata: «pietre!». Narodla che questa volta, stranamente, aveva lasciato il casco a casa, fortunatamente era già fuori dalla strettoia e rilanciò l’allarme ad Oiez che invece non poteva fare altro che rimpicciolirsi, incastrarsi il più possibile, sperare ed attendere.

Tutto durò pochissimo; ci fu il rumore, le pietre caddero ed Oiez sentì un forte bruciore, caldo, doloroso, ma di breve durata, alla scapola destra, concomitante ad una fitta gragnuola di pietre e pietrine sul casco, che invece lui portava, non accompagnata per fortuna da danni alla testa. Uscì dal camino, si sfogò con un bel «porca miseria», ma subito realizzò che la causa era stata dello scioglimento di ghiaccio e ghiaccioli e che la cordata precedente e compagno erano innocenti; comunque non si aspettava questo tipo di scariche spontanee data la leggenda della solidità della roccia per quella zona; e ciò malgrado quello che aveva detto il gestore del rifugio la sera precedente spiegando e raccomandando attenzione a possibili scariche, frequenti ormai da un paio di stagioni per temperature più alte e minori precipitazioni nevose invernali. La giornata era ormai bella e limpida, ma il «clima», per Oiez, si metteva sullo scuro, come presagio inconscio, e la scapola destra denunciava ora un sordo, ma costante, dolorino.

Dopo altri traversi ascendenti verso il filo di cresta, avevano raggiunto una zona di rocce più solide e compatte di un bel granito rossastro; avrebbero dovuto essere vicini ad un classico camino indicato dalle relazioni, quindi si fermarono per la prima sosta mangereccia al sole, mentre l’altra cordata proseguiva infilando e salendo un bel camino di una quindicina di metri, forse appunto quello indicato. Dopo i «due bocconi», la sigaretta di Oiez stigmatizzata da Narodla, come da prassi ormai consolidata fra i due, ripresero; salirono il camino, bello e non difficile, proseguirono questa volta in verticale su granito finalmente solido e compatto; e raggiunsero il filo di cresta.


Sul filo di cresta intorno ai 4000 m


Erano ormai oltre i 3800 metri di quota, ma il misto era ancora costituito da roccia solida e terriccio e pietrisco; di neve neppure l’ombra fatta eccezione per un lenzuoletto rettangolare di una cinquantina di metri di larghezza di poco più basso alla loro sinistra, subito sotto la cresta. Un centinaio di metri più in alto la cresta appariva però finalmente di misto, rocciosa e nevosa e più oltre si poteva intravedere la calotta glaciale della vetta. Narodla su quel bel granito, su quei tratti aerei ed esposti molto belli e non particolarmente difficili, su un tratto a «rasoio» da fare a cavalcioni in piena esposizione, aveva preso ancora più slancio ed entusiasmo e tirava la corsa senza soste.

Oiez seguiva con altrettanta felicità e soddisfazione, soltanto lievemente smorzata dal cupo «fastidio» alla spalla; avevano di nuovo intravisto, un centinaio di metri avanti, l’altra cordata che traversava sui primi tratti nevosi. La determinazione di Narodla l’aveva portato a superare, studiandoci su i minuti necessari, non uno di più, una bella placca verticale e una bella spaccata, da metà dello spigolo della placca ad una cornice che consentiva di proseguire la salita sulla sua destra, in piena esposizione. La determinazione andò ad «arenarsi» in una fessura-camino diventata troppo stretta per contenere lui ed il sacco senza produrre nefaste lacerazioni ed abrasioni, quanto meno al sacco, quasi nuovo. Narodla ridiscese, Oiez, più piccolo e minuto, sgattaiolò ed uscì su per la fessura, sacco in spalla e recuperò zaino del compagno e compagno, che sollevava e spingeva il sacco stesso ove necessario; anche questa era fatta.

Erano ora oltre i 3900 metri, finalmente sugli agognati tratti in misto, ma la neve era morbida ed al tempo stesso sufficientemente portante per cui i ramponi restarono nel sacco, la piccozza era più che sufficiente. Intanto, dopo aver salito un’altra cinquantina di metri, ora nuovamente corda in mano, per neve e roccette, avevano incrociato la cordata di connazionali che stava tornando e che stimava, a richiesta di Narodla e Oiez, in quaranta, cinquanta minuti al massimo, il tempo necessario per la sommità.


Quasi in vetta: a sn le Grandes Jorasses, a dx il Monte Bianco


Intanto succedeva anche un’altra cosa, e già da qualche tempo; una musica di scariche di sassi a intervalli quasi regolari, evidentemente dovute non a passaggi di alpinisti ma a alte temperature, siccità e decisa scarsità del legame costituito dalla neve gelata e dal ghiaccio. Tutto ciò era ben visivamente ed orrorificamente documentato dalla vista, ora dominante, verso destra, di quella che avrebbe dovuto essere la classica via di ghiaccio; l’altra cosiddetta normale alla vetta; un bel canalone ripido ed innevato che terminava su un’area selletta.

Di quel canalone, famoso, distinguevano appena l’abbozzo per via di un ridotto triangolo glaciale nerastro che partiva dalla selletta stessa e si esauriva un centinaio di metri più in basso in un canalastro poco definito, roccioso-terroso, cosparso di grossi ghiaccioli di acqua di fusione rigelata, il tutto battuto da scariche regolari di pietre, massi e ghiaccio che precipitavano sul ghiacciaio. Proseguirono, corda in mano, traversarono ancora un trattino delicato di roccette inclinate coperte da neve piuttosto instabile, aggirarono l’ultimo spuntone roccioso e raggiunsero un colletto nevoso esile ed esposto, poco sotto l’estrema cuspide. Decisero di non rischiare e proseguirono di nuovo in assicurazione; un tiro e mezzo di corda su una cresta nevosa prima esile poi via via più larga portò prima Narodla, poi Oiez, sulla vetta glaciale, molto più stretta del previsto e battuta, solo lì, da un vento teso e freddo.

Persero il tempo strettamente necessario ad infilare un duvet a riparo dal freddo ed a fare un giro panoramico di vista a 360 gradi; Oiez, addirittura, rinviò l’accensione della sigaretta fatidica ad un successivo, più basso, momento, considerati anche vento e freddo. Erano passate nove ore dalla partenza dal rifugio, una in più di quanto indicato dalla guida scritta, notoriamente avara nei tempi però; Oiez, tutto sommato e considerato, ripensando anche alle incertezze mentali del mattino, era del tutto soddisfatto; Narodla concludeva che non avevano poi tardato troppo, accondiscendeva ad un «onorevole» ritardo.


La vetta della Verte sferzata dall'abituale vento


Ridiscesero ai 4000 metri di quota in un clima che era variato in freddo e ventoso, con qualche nebbia che andava riformandosi, anche sui rilievi vicinie, senza scoprirsi, si fermarono, finalmente, per trangugiare qualcosa di più di «due bocconi». Oiez poi gustò, quasi per intero, la sua sigaretta e Narodla fece altrettanto; non era un fumatore, ma in alcune occasioni non disdegnava, anzi, l’offerta.

Ripresero la discesa, superando i vari passaggi con altrettanta soddisfazione di quella provata in salita, e lasciarono la cresta per calare sul versante alla loro sinistra in un punto presumibilmente vicino a quello prima percorso, che non riuscirono a ritrovare con esattezza. Ritrovare la giusta via fra quelle placche, costole e salti, prima solidi e compatti, poi via via più degradati ed intervallati da cenge e canali a terriccio e ghiaia umidi, a volte bagnati, non era facile.

Di neve ne esisteva pochissima, pochi fazzolettini, ed era un miracolo, che si verificò solo un paio di volte, ritrovare su quelli le loro tracce o quelle dell’altra cordata. Dell’altra cordata non si vedeva manco l’ombra; il bel camino di una quindicina di metri dell’andata era introvabile, scomparso. Potevano cercare e contare solo su qualche vecchio segno di passaggio, rare impronte sul terriccio ghiaioso umido ed un apio di vecchie scatolette di carne o tonno arrugginite.

Decisero per una immaginaria linea di discesa a scala anziché a diagonale, giù diritti poi traverso a 90 gradi verso destra per tratti di una quarantina di metri, sarebbe stato così più facile intersecare eventuali tracce di passaggio. Ad un certo punto erano fermi su una specie di costola rocciosa solida e compatta che moriva su un notevole salto e studiavano il da farsi; alla loro sinistra, guardando verso l’alto, verso il filo di cresta da cui erano scesi, un repellente canale di terra e pietre in bilico; alla loro destra, al di là della costola, non avevano ancora guardato; sotto, il vuoto; all’improvviso successe il finimondo.


Sull'Arête du Moine


Oiez stava ispezionando il salto quando sentì Narodla, che guardava a destra e verso l’alto, urlare «attenzione, al riparo, al riparo!»; ebbe appena il tempo di girarsi per cogliere al volo lo spettacolo di Narodla che, con due balzi felini, volava e spariva al di là della costola. Contemporaneamente il suo udito percepì un rumore secco, fortissimo di schianto seguito da sibili e fruscii come da stormi di alianti in volo; con la coda dell’occhio sinistro vide volteggiare in cielo, verso la cresta, due o tre lastroni di granito grandi come tavoli da sala di consiglio d’amministrazione, numerosi massi informi di grossa dimensione, una nuvola, letteralmente, di pietre, pietrine e polvere. Difficile descrivere contemporaneità ed immediatezza di percezioni date dalla velocità della luce, vista, e dalla velocità del suono subito successivo, udito.

Tutto quel materiale volante dirigeva inequivocabilmente verso il canale lì attiguo, Oiez non aveva dubbi, ma dalla sua posizione il volo al di là della costola prendeva troppo tempo, e poi che c’era al di là, e Narodla che fine aveva fatto?

Difficile anche descrivere contemporaneità ed immediatezza dei mille pensieri che attraversavano il cervello come lampi in queste occasioni, nonché le reazioni che innescano. Tutto avviene quasi contemporaneamente, forse neppure il più avanzato cervellone elettronico è capace di recepire domande, elaborare soluzioni, trasmettere ordini e risposte in frazioni di secondi come avviene per il nostro cervello quando messo alla frusta da situazioni simili; se girasse sempre a questi regimi saremmo davvero dei mostri sacri; oppure, forse, è solo merito del vecchio, semplice, animalesco e trascendente istinto naturale?

Necessariamente, nello scrivere, si impone un ordine di estensione, ma non è così; Oiez fece, e subì, tutto assieme. Aveva visto un rigonfiamento a pancia della costola rocciosa su cui si trovava e lo valutò un accettabile riparo, validità stimabile 70 per cento; vi si appiccicò contro e un po’ sotto, schiena e sacco al canale, faccia incollata alla roccia. Raccolse, con le mani fra le gambe, quel po’ di corda ancora svolta. Sentì i rumori assordanti degli impatti, tanti, infiniti, terrorizzanti e un boato-fruscio che si perdeva nel vuoto e nel canale, verso il ghiacciaio, non smetteva di rinnovarsi. Sentì un colpo alla spalla, stesso punto del mattino, doloroso, ma non troppo violento. Sentì una coltellata, mai preso coltellate, ma pensava che questo era il paragone più consono, al polpaccio della gamba destra.

Pensò che Narodla non aveva il casco e intanto sperava che là dove era sparito non ci fosse il vuoto, ma pensò anche che non aveva sentito strappi e tensioni alla corda. Pensò alla casa, al perché era lì, alla mamma da poco persa, alla famiglia e, strano, forse illogico, ma sempre lampi spontanei del cervello erano, pensò al gatto e ai vecchi ricordi d’ufficio, quando erano ormai tre anni che era in pensione.

Sentì, a pochi centimetri sopra la testa, cadere e rompersi una quantità di sassi che pareva infinita, in realtà, forse, non più di tre o quattro. Pensò alla paura, che fa novanta, e chiuse gli occhi, non per riflesso automatico da paura incontrollata, ma per scelta ragionata, sempre sul filo dei centesimi di secondo, per non vedere il peggio; chiedendosi nel contempo che diavolo di peggio avrebbe potuto vedere se un masso gli avesse fracassato la testa mentre fissava la roccia a cui aveva rigidamente incollato la faccia.

Finalmente tutto cessò, ma erano passati realmente diversi minuti data la vastità del crollo, non solo pochi secondi come di solito avviene per stacco, impatto e divallamento di qualche pietra; effetto e sensazione erano di eternità.

Al sopraggiungere del silenzio, interrotto ora solo più da qualche sordo fruscio di assestamento, le grida di Oiez e Narodla «tutto bene», si incrociarono salendo al cielo e furono un gran sollievo per entrambi. Narodla non era volato nel vuoto, aveva trovato un discreto riparo ed era ricomparso sul filo della costola rocciosa spiegando ad Oiez che il suo allarme, in anticipo sui rumori del cataclisma, aveva potuto lanciarlo in quanto aveva visto staccarsi in silenzio dalla cresta un torrione alto come una casa di quattro piani. Anche da ciò emergeva la lezione di guardarsi sempre attorno, di sfruttare la velocità della luce, vista, prima che quella del suono, udito, soprattutto quando i gestori di rifugio hanno preavvisato alcuni pericoli od evenienze.


Panorama verso le Jorasses e il Bianco. Al centro, triangolare, l'Aiguille du Moine


Ora bisognava riprendere la discesa, ma per Narodla ed Oiez restavano i dubbi di prima, alla fine decisero per l’attraversamento di corsa, si fa per dire, del canale, ancora più repellente e minaccioso dopo quanto successo. Cionondimeno attuarono il progetto e dopo altri traversi e calate raggiunsero la selletta ed il ripianetto a massi instabili, non più interessato da ghiaccio e ghiaccioli, ma da acqua di fusione, soprastante il lungo canale-camino terro-ghiaioso che portava alle cenge soprastanti il punto d’attacco della salita. Scesero tutto il canale, molto vicini l’uno all’altro e corda in mano, facendo precipitare, con scivolate e saltini, a volte appositamente e con divertimento, sicuri che sotto non c’era anima viva, ogni… ben di Dio.

Intanto si faceva sera ed Oiez doveva convivere col sordo dolore alla spalla e con una zoppicante gamba destra causata dal male al polpaccio, comunque proseguiva ancora bene e Narodla non mancava di incitarlo quando necessario.


L'Aiguille Verte (a sx) domina maestosa gli spazi glaciali


Un pensiero iniziava a farsi strada però nella sua testa: «salite ne ho fatte moltissime, d’estate e d’inverno, a piedi ed in sci, per anni; quella di oggi, fra le numerosissime altre, mi ha consentito di “fare” il cinquantasettesimo quattromila, ma questo quattromila cosa ha voluto indicarmi? Devo considerarlo un avviso di licenziamento? Dopo trent’anni di alpinismo si potrebbe anche accettare! E quei barlumi di ricordi d’ufficio e di pensione sotto quella scarica paurosa, vanno ricordati ed interpretati? Sta a vedere che questa salita è il TFR, il mio Trattamento di Fine Rapporto!».

Al fondo, alle cenge, videro nuovamente l’altra cordata dei connazionali che stava scendendo verso il ghiacciaio la tormentata conoide dell’attacco; evidentemente, e sorprendentemente, malgrado i ritardi subiti, i nostri avevano recuperato, ma il sollievo fu, nuovamente, di breve durata. Al muretto verticale, superato con qualche difficoltà al mattino, Oiez era già sceso ed aveva raggiunto il vertice della conoide, mentre Narodla stava valutando come scenderlo quando sentirono, di nuovo, dall’alto, sibili, botti e fruscii.

Fu ancora, la storia si faceva ormai stressante per la sua ripetitività, questione di attimi, ma ancora attimi eterni. Narodla gridò: «tieni» e saltò giù dal muretto, di brutto, senza perdere altro tempo, planando ed arrestando lo slancio, fortunosamente, sull’instabile ghiaia viscida del fondo mentre giungevano le prime pietre.

Raggiunse Oiez sul vertice della conoide e si raggomitolò, testa fra le mani, addossato alla lastronata granitica; Oiez a sua volta si raggomitolò sul compagno cercando di proteggerne la testa con la sua, riparata dal casco, e col sacco.

Durò di nuovo parecchio, anche se, questa volta, a giudicare dai colpi, senza massi di grosse dimensioni. Comunque la gragnuola di pietre non finiva mai e parecchi frammenti di rimbalzo, per fortuna, andarono ad interessare i loro immediati paraggi, qualcuno sul sacco di Oiez che pensava, più che mai: «è proprio un Trattamento di Fine Rapporto, certo non riconoscente; oppure no, visto che non ci “stende” del tutto; sembra comunque drastico, imperioso, vuol cacciarci via e non ammette ripensamenti!». Finita la scarica, e i fruscii e gli slittamenti vari di assestamento, l’altra cordata era per l’ennesima volta scomparsa alla vista e la luce si riduceva velocemente.

Narodla ed Oiez calzarono i ramponi rapidamente, quasi in affanno, ormai l’incubo di altre scariche condizionava ogni movimento; discesero, con un rapido tiro di corda, la cornice ghiacciata, corsero giù per la conoide e raggiunsero il ghiacciaio passando fra blocchi di ghiaccio, due grandi come una persona che forse al mattino non c’erano, massi, pietre e pietrisco, il cui accumulo era evidentemente aumentato nel corso della giornata.

Oltrepassarono la soglia del rifugio alle ore 21, stanchi, bisogna dirlo, Oiez anche ancora un po’ dolorante; felici e contenti non lo so. Avevano impiegato, dalla vetta, otto ore a scendere, riperdendosi cioè ancora una volta un’ora sui tempi indicati dalla relazione. Decisero, questa volta subito ed all’unanimità, che il ritardo era «onorevole», e poi erano ancora vivi, malgrado tutto; seppero poi dai due connazionali che gli stessi non avrebbero scommesso in questo senso dopo aver sentito tutto quel baccano sulle pareti.


Ezio Mentigazzi sull'Arête du Moine (foto tratta da "Scàndere 1993")


Il giorno successivo in basso, al paese straniero, cambiandosi, Oiez trovò maglietta e calzino insanguinati, una bella abrasione sulla scapola destra ed un buchino, proprio come una coltellata, al polpaccio destro. Un po’ di male nei due punti durò qualche tempo; le cicatrici qualche mesetto; la questione di fondo sullo smettere o continuare, se Trattamento di Fine Rapporto con Montagne e Alpinismo era oppure no, dura tuttora; che fare? Certo che il richiamo di nevi e ghiacci scintillanti al sole sulle alte vette in piena estate è tuttora forte, e pericolosamente seducente!

(26 agosto 1992, Arête du Moine all’Aiguille Verte, 4122 m – Arnaldo Caroni e Ezio Mentigazzi – SUCAI/CAI Sezione di Torino; una «ripetizione» fra tante altre).

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