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Gian Piero Motti, il Nuovo Mattino e il CAI: una storia diversa

di Lino Fornelli

Gian Piero Motti è stato un'alpinista e scrittore torinese, nato nel 1946; praticamente di casa in Val di Lanzo, specialmente nella Val Grande. La sua famiglia possedeva una villa a Breno (Groscavallo) dove lui sin da piccolo vi passava le vacanze estive.

Amava scrivere e scriveva molto. E' l'autore tra l’altro di una storia dell’alpinismo, un lavoro così dettagliato e completo che farà dire a Massimo Mila: “... un’opera che non ha l’eguale in italiano; ma anche all’estero esiste qualcosa che si possa paragonare a questa Storia per ampiezza di informazione, per appassionata vivacità di partecipazione, confortata dall’esperienza personale?” (La Stampa 29/9/1978). Quest’opera è forse il vero capolavoro di Motti ed è un’opera fondamentale per chi voglia formarsi una cultura alpinistica.

Autore anche di guide sulle palestre di arrampicata torinesi: “Rocca Sbarua / Tre Denti” del 1969 e “Palestre delle Valli di Lanzo” del 1974, ed altro ancora. Guide ottime per precisione e completezza, edite dalla GEAT, sottosezione del CAI Torino di cui lui era socio.

E’ stato un'alpinista di alto bordo ed un eccellente arrampicatore. Dotato di un bel fisico atletico riusciva facilmente in ogni attività sportiva cui si dedicasse. Ha praticato altri sport prima di dedicarsi all’alpinismo, ma infine sarà la montagna ad assorbirlo totalmente.

Entrato nella Scuola Nazionale di Alpinismo G. Gervasutti come allievo, ne diventerà presto istruttore. Era  anche membro del Club Alpino Accademico Italiano e del Groupe Haute Montagne francese. Al suo nome è stata intitolata una scuola di alpinismo a Settimo Torinese.

E’ anche stato lo scopritore della bella palestra di ottima roccia del gruppo di Roci Ruta e Bec di Mea, presso gli Alboni, in Val Grande di Lanzo.

Ed è stato certamente l’uomo più discusso del dopoguerra nell’ambiente alpinistico di Torino, questo per essere stato l’ideologo di un nuovo modo di interpretare l’alpinismo, conosciuto come: “Il Nuovo Mattino”. Nome che presupponeva la rinascita della filosofia dell’alpinismo.

Le idee, che stanno alla base di questa filosofia hanno prodotto all’epoca grandi discussioni e dibattiti, ma hanno avuto vita breve.

Motti proveniva da una famiglia benestante che gli ha permesso di studiare, di formarsi una buona cultura e di godersi il tempo libero, tempo che dopo gli studi dedicherà interamente all’alpinismo.

Era uno dei pochi giovani che sin dagli anni '60 già possedeva un’automobile per recarsi in montagna” - ma non si trattava di un’utilitaria bensì di un modello sportivo (ndr) - “Possedeva sempre i migliori materiali, e quando era in giro per arrampicare amava trattarsi bene scegliendo buoni ristoranti per pranzare ed alberghi anziché campeggi per dormire”. Questo si leggeva in un articolo di Ugo Manera su Scandere 1989.

E ancora: “Questo suo modo di vivere abbinato a qualche atteggiamento apparentemente egocentrico gli valse l’appellativo un pò polemico di Principe”.  

Terminati gli studi si dedicò interamente all’attività alpinistica. Furono anni di attività intensa, frenetica, che lo portarono ben presto ai massimi livelli di allora.

Tanto per intenderci: la Walker, in condizioni pessime, con il compagno Alberto Re colpito da un sasso; la direttissima Brandler-Hasse, sempre con Re, alla nord della Cima Grande di Lavaredo; la prima salita solitaria dello sperone Gervasutti al Mont Blanc du Tacul, quello su cui perse la vita il “Fortissimo”; e anche salite di falesia, se così si può dire, come il “Diedro del Terrore” sulla Parete dei Militi (Bardonecchia) in prima ascensione, con Giancarlo Grassi.

Ma per conoscere meglio l’uomo è necessario sapere quanto scriveva lui di se stesso: “L’importante è allenarsi, sempre e di continuo, non perdere una giornata, avere il culto del proprio fisico e della propria forma… ciò che conta è arrampicare sempre al limite delle possibilità, ciò che vale è la difficoltà pura, il tecnicismo, la ricerca esasperata del sempre più difficile…

Questo scriveva nell’articolo “I Falliti”, Rivista Mensile CAI- 9/1972. E ancora: ”Esaltato, nevrotico, indifferente quando non assente, ostinato e caparbio nell’inseguire una meta sbagliata eppure cosciente dell’errore.” 

“Arrampicare, arrampicare sempre e null’altro che arrampicare, chiudersi  sempre più in se stesso, leggere quasi con frenesia tutto ciò che riguarda l’alpinismo e dimenticare, triste realtà, le letture che sempre hanno saputo darmi qualcosa di vero e che con l’alpinismo non hanno nulla da spartire”.

Era l’alpinismo portato all’esasperazione, al parossismo, senza più contatti con la realtà, con la vita. E’ chiaro che a questi livelli qualcosa può saltare. Si rende conto ad un certo punto che tutta quell’attività non portava da nessuna parte, che era qualcosa di inutile.

…ma qualcosa comincia a non funzionare: ritornando a casa la sera mi sento svuotato deluso, mi sento soprattutto inutile a me stesso e agli altri, mi sembra, anzi ne ho la netta sensazione, che l’intimo di me stesso si stia ribellando a poco a poco a questo stato di cose, che il mio cervello non tolleri più questo modo di vivere. Ed ecco che giunge la crisi, terribile e cupa”. 

Su Scandere 1984: ”...hai sempre condannato chi si droga e non ti rendi conto che anche tu sei drogato, perché la roccia è la tua droga.” - tutto questo si spiega probabilmente con l’assenza di un impegno professionale, lavorativo (ndr).

E poi: ”Per giustificare o meglio mascherare il mio fallimento mi atteggiai a ribelle nei confronti della società, cercai di entrare nella parte dell’anarchico che disprezza i comuni mortali… anche nel vestire cercai di adeguarmi al soggetto proposto: barba, capelli lunghi, abiti logori e sdrusciti, atteggiamenti molto pacati.  Esaurimento nervoso di grossa portata con perdita completa del sonno.” 

Era la sua sensibilità che gli rimproverava di non dare alcun contributo alla società in cui viveva?

Sarà poi Guido Rossa a dirgli che: ”L’errore più grande è quello di vedere nella vita solo l’alpinismo.” Lui se ne rendeva forse conto, ma sentirselo dire da uno come Guido Rossa lo porterà a riflettere seriamente.

Ammetterà poi: “Ho capito l’errore, troppo a lungo ho vissuto in una piccola stanza dove ho chiuso ermeticamente finestre e porte e lì da solo, nel buio, mi sono illuso che il mondo fosse tutto racchiuso fra quattro pareti. Poi una finestra si è leggermente dischiusa ed un filo di luce vi è penetrato” […] ”E poi ci saranno altre persone, tutti gli amici che stupidamente avevo perduto e che ritroverò ad uno ad uno e che mi aiuteranno moltissimo.

Da tutta la sua autocritica, se ne potrebbe ricavare un’impressione negativa sull’uomo, questo sarebbe un errore, perché l’autocritica significa sempre onestà morale. Lui ha avuto questa onestà. L’amico Manera così dirà di lui: “Non era ne egocentrico ne egoista, anzi era invece molto generoso ed altruista”.

 Quindi in quel 1972 ritroverà la serenità con gite facili con amici. Si trova anche un lavoro che lo soddisfa e gli lascia molta libertà, libertà non solo per riprendere ad arrampicare, ma anche per dedicarsi alle mille cose che lo attirano.

Era dotato di forte personalità e di grande carisma e questo portò molti giovani di allora ad adottare e seguire il suo pensiero. Ma a volte la sua autostima lo portava anche a giudicare tutti dall‘alto al basso:

“...nell’alpinismo sono troppi i falliti e troppi i condizionati”

“...sovente l’uomo alpinista mi ha profondamente deluso”.

Infine: “Molti si illudono di essere qualcuno, credono di essere importanti solo perché nell’alpinismo hanno raggiunto i vertici. Ma se tu trasporti gli stessi individui in un altro ambiente, se li inserisci in un differente contesto sociale, allora li vedi incapaci di sostenere un dialogo qualsiasi, spauriti ed intimiditi, incapaci di intrecciare relazioni umane.”

 Questo forse è vero, ma in questo caso a lui non passa nemmeno per la mente che questi alpinisti, questi “individui,” magari non hanno avuto la fortuna che ha avuto lui, quella di nascere in una famiglia agiata che gli ha permesso di studiare e di formarsi una buona cultura in un ambiente dalle relazioni altolocate.

Era il tipico atteggiamento di un intellettuale che non aveva alcuna esperienza di vita, a parte l’alpinismo, che non si rendeva conto di cosa significasse lavorare duramente, sin da giovanissimi, e non avere i mezzi per studiare. Questo suo giudizio severo, ingeneroso e un po’ sarcastico non gli rende onore.

A volte si lasciava anche prendere la mano da questo suo voler dare giuidizi: per esempio Giovanni Dematteis sul Notiziario della Sezione di Rivarolo Canavese del CAI, Aprile 2018, ci ricorda che nella sua storia dell’alpinismo Motti parla di Gervasutti - che non  ha mai conosciuto - come di una “persona nevrotica, incline alla malinconia, lacerata dalla contraddizione, tormentata da un desiderio di infinito, incapace di vivere la normalità, insomma di un Dio caduto dal cielo ed insoddisfatto di trovarsi uomo”.

Questo giudizio verrà nettamente rifiutato da alcuni dei compagni di cordata del “Fortissimo” come Massimo Mila, Renato Chabod, Paolo Bollini, Aldo Bonacossa, Lucien Devies, ed altri.

L’alpinismo si è sviluppato in modo differente sui due lati dell’Atlantico.

In Europa si era arrivati sino al sesto grado e al sesto superiore. Erano stati risolti gli ultimi tre “Grandi Problemi”: le pareti nord delle Grandes Jorasses, del Cervino e dell’Eiger ancora prima della Seconda Guerra Mondiale.

Ma al di là dell’Atlantico l’alpinismo aveva avuto uno sviluppo diverso. Negli Stati Uniti esistono certo grandi montagne di 5000 e 6000 metri, ma sono lontane e di difficile accesso, per cui gli arrampicatori locali hanno finito per preferire la famosa Yosemite Valley nella Sierra Nevada. Qui vi sono montagne di non grande altezza sui 2700 metri al massimo, che presentano però delle immense, straordinarie pareti di granito verticali, che per lo più sorreggono ripiani erbosi più o meno vasti, cioè non si tratta di montagne come le intendiamo noi culminanti in una vetta.

E’ chiaro che questo comportava un diverso concetto di alpinismo e un diverso concetto di scalata. Qui non si trattava di superare difficoltà per raggiungere la vetta (che non esisteva), ma semplicemente di superare la parete stessa.

Trattandosi poi di giovani appartenenti ad un paese un paese molto progredito sul piano tecnologico e in cui lo sport raggiungeva sempre i massimi livelli (vedi le Olimpiadi), quegli scalatori raggiunsero un livello eccezionale sul piano tecnico, sfruttando al massimo quanto la tecnologia moderna poteva offrire loro, ma anche grazie alle loro straordinarie prestazioni atletiche.

E’ però interessante anche vedere come operavano questi arrampicatori per raggiungere tali prestazioni. Ce lo spiega Ugo Manera nel suo lucido articolo: ”Settimogradisti parassiti sociali?” Scandere 1980.

Praticamente per raggiungere quei risultati bisognava dedicare alla roccia il tempo pieno. Cioè arrampicare tutto l’anno o quasi, senza interruzioni dovute al lavoro. E come potevano vivere? Alcuni con i mezzi propri, ma altri col sussidio di disoccupazione. Si accontentavano di poco.

Motti è stato sicuramente affascinato dall’alpinismo californiano ed è  stato forse questo il momento dell’intuizione del Nuovo Mattino: lui pensava certamente ad un alpinismo sfrondato dalla retorica ottocentesca, compreso il mito della “vetta”.

Sicuramente lui sottintendeva l’etica californiana, con le sue regole e le sue preclusioni, come un qualcosa di innovativo, di superiore, da prendere a modello.

Il Nuovo Mattino è concepito come “un nuovo modo di intendere l’alpinismo”; alpinismo che lui stesso in altra parte definisce angoscioso: "dove l’arrampicata libera quasi non esiste, ma viene portata sino al limite di caduta"

Allora era davvero necessario dimenticare Paccard, Balmat, Whymper, Coolidge, Knubel, Mummery, Rey, Preuss, Dulfer, Comici, Cassin, Gervasutti, Bonatti, Hermann Bhul… cioè la storia dell’alpinismo, per passare attraverso un periodo di “purificazione” prima di ritornare alla montagna?

Ma siamo proprio sicuri che l’alpinismo consista esclusivamente nel ricercare vie nuove su qualunque struttura rocciosa a qualunque quota? Che ripetere vie classiche sulle Alpi non sia più alpinismo?

Che, tanto per fare un piccolo esempio, sia meno alpinismo salire il Dente del Gigante da nord che arrampicare su un qualche sperone roccioso di uguale difficoltà nel verde di qualche sperduto vallone?

Ora la maggioranza degli “alpinisti” preferisce arrampicare (scalare) su falesie o massi di fondo valle, con prestazioni di veramente alto livello.

L’alta montagna vede diminuire - ma non scomparire - la sua frequentazione. Si dice che questa è l’evoluzione dell’alpinismo.

In realtà questa è soltanto “l’evoluzione della tecnica” dell’alpinismo.

L’alpinismo inteso come “sentire” la montagna, come “vedere” la montagna, come l’apprezzare i suoi aspetti grandiosi e bellissimi, la sua poesia, è un’altra cosa.

E’ chiaro però che si può contemporaneamente apprezzare sia le grandi scalate che l’aspetto estetico della montagna, come diceva già il Mummery: “...il fatto che un uomo si diverta a scalare rocce a picco, in nessun caso lo rende insensibile a tutto ciò che di bello vi è nella natura. I due piaceri non sono dello stesso ordine: un uomo può amar le scalate e infischiarsene dei paesaggi della montagna, e viceversa può essere appassionato per le bellezze della natura e odiare la scalata; ma può provare insieme I due sentimenti. Si può certamente presumere che coloro i quali sono maggiormente attirati dalle montagne e che con maggiore costanza fanno ritorno ai loro splendori sono quelli che possiedono al più alto grado queste due sorgenti di gradimento.” Mummery, “Le mie scalate nelle Alpi e nel Caucaso"

Il tempo cammina e intanto in Europa qualcosa si stava muovendo. In Francia la “Grande Contestazione Giovanile” che darà vita al famoso maggio parigino del 1968, era presto dilagata in tutta la Francia ed in Europa, Italia compresa.

Si proponeva, tra l’altro, di contestare, modificare e magari abbattere tutto ciò che sapeva di borghese. I borghesi vestivano con “decoro”, allora bisognava vestire in modo “indecoroso”: vestiti logori, barba e capelli lunghi, ecc.. - anche Motti ne era rimasto contagiato, come abbiamo visto.

L’alpinismo era una creatura borghese quindi era inevitabile che la fronda arrivasse prima o poi a colpire anche lì; questo nonostante “l'ondata proletaria“, per dirla con Garimoldi in “La Minoranza Arrampicante,” avesse già raggiunto l’alpinismo torinese, e Adolfo Balliano parlasse, con un po’ di sufficienza dei giovani alpinisti di allora, come dei “ragazzetti usciti dalle officine”.

Se i borghesi scalavano le pareti delle montagne per raggiungere una vetta, si poteva scalare la parete e basta, cioè limitarsi alla parte più esaltante e più succosa dell’alpinismo.

I più hanno interpretato le idee di Motti come un invito a disertare l’alta montagna, a considerare solamente più massi e falesie.

Questa era l’idea del Nuovo Mattino percepita da molti giovani di allora, che con l’entusiasmo proprio dell’età, e anche grazie appunto al carisma e alla personalità di Motti furono portati a seguirne acriticamente il pensiero.

Molti anni dopo Marco Blatto scriverà: “Motti fu tra i primi a comprendere la novità del modello californiano e a sostenere che l’alpinismo e la scalata, pur senza rinunciare alla grande avventura, possono essere vissuti senza i dettami “tradizionali”. Motti, in pratica, accetta di uscire dall’alpinismo proponendo avventure “senza la vetta” che è  momentaneamente  privata del suo valore simbolico e irrinunciabile, a favore della celebre “filosofia dell’altipiano”. “Si tratta però di una rinuncia temporanea che dovrà ricondurre nuovamente all’alpinismo una volta realizzata la liberazione da certi dogmi conservatori.” Marco Blatto in ”La libera avventura esplorativa di Giancarlo Grassi”, Giugno 2018.

“Riflettere e una volta liberati dai dogmi conservatori” - questo sa di monastico - cioè come si era intesa l’attività in montagna sino a quel momento, per sostituirla con una nuova visione dell’alpinismo, ovviamente in chiave californiana.

Ma non è stato Motti stesso, come vedremo più avanti a dire che: ”l’alpinismo è una delle più belle manifestazioni anarchiche del pianeta”?

Se le parole hanno un senso: “uscire dall’alpinismo”...”avventure senza la vetta”... significa semplicemente abbandonare l’alpinismo per dedicarsi ad una attività diversa.

Si tratta certamente di una tesi rispettabile, ma che riflette soltanto l’opinione personale di Motti e di chi ne ha sposata la filosofia.

Nello stesso articolo Blatto afferma: “...la rigidità di un ambiente alpinistico torinese sospeso a metà tra l’idealismo del regime e il contraltare proletario del dopoguerra, ugualmente rigido...”

Luoghi comuni che ignorano quale fosse, al di là della facciata ufficiale, obbligatoria, l’atmosfera e l’ambiente alpinistico torinese nella prima delle due fasi considerate; la seconda non ha mai avuto molta presa.

E' stato giustamente detto che ogni generazione che si appresta ad affrontare la montagna sale sulle spalle della generazione che l’ha preceduta.

Gli odierni scalatori che sanno affrontare anche il nono grado e forse il decimo, non esisterebbero se non ci fossero state prima generazioni di arrampicatori che hanno fatto la storia dell’alpinismo.

Con i Californiani la tecnica dell’arrampicata aveva fatto un altro passo avanti. In un certo senso si era ripetuto quanto era avvenuto negli anni 30 dello stesso secolo con la scuola di Monaco, la scala Welzenbach e l’invenzione del sesto grado.

Motti forte scalatore europeo che aveva conosciuto e superato le massime difficoltà di tipo alpino del tempo, subì il fascino della mentalità "yosemitiana": quella di affrontare e superare ogni realtà rocciosa, a qualunque quota che offrisse la possibilità di confrontarsi con una scalata anche senza l’obbiettivo di una vetta.

A questo punto però, a complicare le cose con un linguaggio enfatico e fanatico, fanno la loro comparsa altri protagonisti.

Su la “Rivista della Montagna”, aprile 1987 Roberto Mantovani parla del Nuovo Mattino come di “una corrente di pensiero e di azione così potente da coagulare attorno a se una vastissima fascia di alpinisti, una vera rivoluzione copernicana”.

Questa era semplicemente una esagerazione! Che porterà in breve tempo alla distorsione del ragionamento mottiano.

E altri:

“l’universo alpinistico...in lenta decomposizione”

“Alcuni dei giovani più sensibili vivono l’esperienza della montagna in modo lacerante… in contrapposizione con l’uomo nuovo che sta cercando di farsi strada”.

Pietro Crivellaro su Scandere 1984 scrive che: ”con l’universale  affermazione delle varappes, stanno cadendo in disuso gli scarponi da montagna e tra un po si farà anche a meno dello zaino: del pari la partita dell’alpinismo è già stata quasi tutta giocata, siamo agli ultimi minuti dei tempi supplementari, col free climbing che si prepara ad una allegra invasione di campo.” Fraseologia e mentalità calcistica! Pare che alcuni vedessero il campo d’azione dell’alpinismo come una catena di montagne tronche, a bassa quota senza più l’inutile vetta.

E’ stata certamente la platea dei fan a fraintendere e deformare il pensiero mottiano, trasformandolo in rifiuto dell’alta montagna e limitandolo ad un’attività sulle roccette di fondo valle: “non più l’alta montagna generatrice di sofferenza, ma la montagna solare,le grandi placconate che salgono dal fondo valle,le pareti di calcare che vanno verso il cielo e finiscono tutt’al più su un altopiano o tra i boschi”. Roberto Mantovani, Rivesta della Montagna 1987.

Sorge qui spontanea una domanda: ma quando mai qualcuno ha proibito a qualcun’altro di dedicarsi alla “montagna solare, alle grandi placconate, di salire in jeans e maglietta” da giustificare una “ribellione”? Questo non sta scritto da nessuna parte. Ognuno interpreta l’alpinismo secondo la sua sensibilità.

“L’alpinismo è una delle più belle manifestazioni anarchiche che esistano sul pianeta e tale deve rimanere: senza leggi, senza regole, senza imposizioni dall’alto, senza padroni e senza padreterni…” afferma lo stesso Motti su: La Storia dell’Alpinismo, Vol.2, pag. 364.

Appunto.

Bisogna però riconoscere che lui non ha mai detto che fosse giunto il momento di abbandonare l’alta montagna per dedicarsi solo più alle falesie.

Per rendersi conto almeno sommariamente di cos’è stato il fenomeno Nuovo Mattino è necessario però conoscere qual’era l’ambiente e l’atmosfera che si respirava a Torino in campo alpinistico dalla fine della guerra sino all’arrivo di Motti; tenterò ora di decrivere questa atmosfera.

Questa presunzione mi viene dall’aver vissuto in prima persona quel periodo. Facevo parte di quei giovani che “dopo la fine della guerra a poco a poco si erano fatti le ossa - alpinisticamente - praticamente da soli e con quali mezzi”. Questo scrivevo su Alp n. 87, luglio 1992.

Si era da poco usciti dalla guerra, si era conosciuta la fame, non solo metaforicamente, si erano subiti i bombardamenti aerei. Tra parenti e amici qualcuno non era più tornato dal fronte; si cercava di tornare a vivere.

La montagna rappresentava un ideale di bellezza e di serenità, ora che non era più soltanto un rifugio per i giovani che non volevano sottomettersi al fascismo.

“Dopo la guerra, scomparsi i grandi maestri Gervasutti e Boccalatte, scossi nel morale gli altri sia appunto per la morte dei grandi e sia per la terribile esperienza della guerra, ai giovani e giovanissimi che si avvicinavano alla montagna mancava l’appoggio dell’esperienza e dell’insegnamento dei più anziani. E noi, giovani di allora, armati sì di un formidabile entusiasmo ma privi di tutto il resto - tecnica, attrezzatura, esperienza e mezzi finanziari - ci si avvicinava alla montagna difficile a piccoli passi”. Questo scrivevo su Scandere 1986, pag.56.

La Suola Gervasutti comincerà a funzionare solo nel 1953, ma a questo punto vi entreremo già come istruttori.

Qui voglio sfatare quanto ho letto troppe volte sul clima di allora: ”un ambiente fatto di miti, di inibizioni, di prudenza, in un clima da casema in sedi del CAI piene di polvere”.

“Tra divieti e tabù gli alpinisti avevano, perso la gioia di scalare: chi diceva ”non si può”, chi abbaiava ”non si deve”... e poi non salivano da nessuna parte perchè erano degli incapaci”.

E ancora: “L’ambiente alpinistico era quanto di più retrivo e ottusamente conservatore si possa pensare. La Scuola Gervasutti di Torino ne era un esempio emblematico: si rasentava l’idiozia”, questo scriveva un certo Massimo Demichela, classe 1954. Da “Verso un Nuovo Mattino” di E. Camanni. Laterza 2018.

Qualcuno è arrivato a parlare addirittura di “clima da inquisizione”!

Che dire di simili sproloqui? Io non imputo a Motti le mal’interpretazioni e le degenerazioni fatte alle sue idee, ma è un fatto che molti allora si facevano un vanto di usare un linguaggio arrogante e presuntuoso credendo di interpretare lo spirito del tempo.

Qui ora, anche se in ritardo, io voglio difendere la memoria di quei giovani di allora, ormai quasi tutti scomparsi, che rinunciavano a parte della loro attività individuale per dedicarsi, volontariamente, all’insegnamento della tecnica e della pratica dell’alpinismo ai più giovani nella scuola Gervasutti. Questi i loro nomi: Dionisi, Ghigo, Marchese, mio fratello Piero, Balzola, Mauro, Viano, Flora, Ennio Cristiano, De Albertis, Maccagno, Malvassora, i fratelli Rosenkrantz, Ghitta, Sanvito, i fratelli Bo, Pistamiglio, Solero, Leo Ravelli, May, Ettorte Russo e ultimo anche me stesso…. Mi scuso per gli eventuali dimenticati.

Dopo tanto fango subìto negli anni, voglio ribadire qui che quei ragazzi non erano nè “idioti” né “ottusi conservatori”, erano tutti ragazzi intelligenti, impegnati e attivi, che offrivano la loro esperienza per insegnare ai più giovani come affrontare la montagna con la maggior sicurezza possibile.

Quei ragazzi all’occorrenza sapevano partire al soccorso di qualcuno in pericolo in montagna, quando non esisteva ancora il Soccorso Alpino con la sua organizzazione e i suoi mezzi attuali (elicotteri e cellulari, ecc….) magari perdendo qualche giornata di lavoro... senza rimborso e subendo anche il rimprovero dei superiori per le giornate di lavoro perso senza permesso!

Ed è chiaro poi che gli sproloqui di cui sopra li poteva scrivere soltanto chi di quei fatti, ne aveva soltanto sentito parlare e si aiutava con fantasia e pregiudizi.

Non aveva mai frequentato le due sedi del CAI di Torino in via Barbaroux e in Galleria Subalpina al venerdì o al giovedì sera. Chi cioè non aveva memoria,(a proposito della “polvere nelle sedi CAI”) delle “Gite Scolastiche” che vedevano centinaia di ragazzi delle elementari e delle medie, trasportati da molti pulman su per le nostre vallate a conoscere la montagna.

Attività questa organizzata e diretta da quell’infaticabile e dinamico segretario della Sezione di Torino e vice presidente che era Ernesto Lavini! Lo stesso Lavini che sarà poi il principale artefice nella realizzazione di quel magnifico soggetto culturale che sarà l’annuario “Scandere”, motivo di vanto per molti anni della sezione.

Intanto si era costituita la Scuola Gervasutti, quella di scialpinismo SUCAI, si organizzavano varie spedizioni extraeuropee e si costituiva il Coro Edelweiss; mentre nella vicina Uget nasceva il Gruppo Alta Montagna, gruppo che per molti anni comprenderà i più attivi alpinisti piemontesi, compresi molti della sezione di Torino.

L’obbiettvo del CAI non è soltanto quello di occuparsi dell’arrampicata estrema; si rendevano conto quei denigratori cosa significasse amministrare decine di rifugi (molti dei quali distrutti o mal ridotti) come era il caso della sezione di Torino?

La critica è sempre apprezzabile quando è onesta e franca.

Nelle due sedi citate l’allegria era di casa. E magari all’uscita si finiva per andare in una birreria di via Palazzo di Città o alla “Crota Paluch” (forse in via XX settembre o dintorni) a concludere allegramente la serata.  

Gli scherzi poi non mancavano mai. Potrei raccontare di un’infinità di episodi, ma mi limiterò a quella volta che abbiamo messo dei sassi nello zaino di una ragazza che se li è portati sino al rifugio! Il giorno dopo le abbiamo fatto fare una via nuova sui Rochers Cornus (Bardonecchia)! E anche in arrampicata, tra un tiro di corda e l’altro le battute abbondavano.

Allora si cantava spesso: in montagna, nei rifugi, sui pulmann, ecc… Insomma l’alpinismo era vissuto in modo gioioso, si tendeva a ritornare ad una vita normale, vivibile, dopo anni di rinunce, di paure e di sacrifici.

L’alpinismo, era un qualcosa di bellissimo, di importante ed impegnativo, era un di più che arricchiva la vita.

“L’abbattimento dei miti” avverrà molto più tardi, sull’onda della contestazione francese, quando i nuovi giovani avranno ormai la pancia piena e magari l’automobile sotto casa e si permetteranno di contestare e ridicolizzare tutto, persino l’equipaggiamento: basta con gli scarponi pesanti, i pantaloni pesanti alla zuava, i maglioni pesanti; in montagna ora si va in jeans e maglietta!

Ma questa presunzione  porterà poi a qualche episodio tragico.

Bisogna considerare che la prima generazione del dopoguerra era uscita dal conflitto con i nervi a pezzi. Allora non si aveva nessuna intenzione di usare l’alpinismo come un’arma per la ribellione, per la contestazione, per la trasgressione.

Si apprezzavano certi valori che in alpinismo sono indiscutibili, come ad esempio:

  • il piacere estetico di una bella salita in alta montagna, anche se già percorsa da altri;
  • l’ebbrezza di arrampicare, su rocce primordiali verso l’alto, verso il cielo;
  • la ricerca e lo studio dell’itinerario;
  • il senso dell’avventura e di libertà;
  • il rischio;
  • la scelta dell’equipaggiamento;
  • il calcolo degli orari;
  • l’incognita meteo;
  • e a volte anche l’incognita della discesa.

Tutte prerogative queste, che non possono essere disgiunte dall’alpinismo. Infatti non sono pochi coloro che salgono le montagne sino in vetta per le vie normali, evitando le difficoltà, per il puro piacere di godere dell’alta montagna. Cioè contrapponendo alla “celebre filosofia dell’altipiano” l’antica “filosofia della montagna”.

Per dirla con Simone Moro: “…è importante cercare sempre la bellezza in quello che facciamo piuttosto che enfatizzare la prestazione fine a se stessa”.

Come in tutte le cose di questo pianeta vi è una crescita, ma raggiunto il culmine inizia la fase discendente. In alpinismo, specialmente quello alpino, ormai è forse stato raggiunto il vertice dell’umanamente raggiungibile: affrontate e superate tutte le vette, le pareti, le creste, in estate ed in inverno, in solitarie, i concatenamenti, ecc… è ormai iniziata la fase discendente?

Se oggi molti pensano che l’alpinismo consista esclusivamente nel praticare l’arrampicata, figlia dell’alpinismo, nelle sue varie forme, non ci si deve scandalizzare. Si sa che l’alpinismo, quello originale d’alta montagna, è sempre stato, è, e sempre sarà, un’attività per pochi, non sarà mai uno sport popolare, uno sport di massa.  Guai se lo diventasse!

I più hanno interpretato le idee di Motti come un invito a disertare l’alta montagna, a considerare solamente più massi e falesie. “Basta con la schiavitù della vetta”, questa ed altre frasi simili si leggevano spesso allora. Questa era l’idea del Nuovo Mattino percepita da molti giovani allora.

E’ certamente vero che in passato si è fatta molta retorica sul mito della vetta, ma eliminare la vetta “tout court” per ripulirla dalla retorica equivale a “buttar via il bambino con l’acqua sporca.”

C’era però un altro aspetto che tengo a ricordare, e che per quanto mi risulta non è mai stato considerato dai critici del periodo: l’obiettivo primario e l’aspirazione di quei giovani di allora non era solo quello di emergere in campo alpinistico, ma piuttosto quello di realizzarsi sul piano professionale, sul lavoro; di affermarsi in qualcosa di concreto e costruttivo.

Cioè esisteva anche la cultura del lavoro.

L’alpinismo era una cosa importante, bellissima e impegnativa, ma veniva dopo. L’obiettivo cioè non era quello della competizione, di arrivare il prima possibile alle difficoltà estreme.

E’ stato questo che ha fatto parlare qualcuno di: “inibiti, pieni di miti, ecc...”? Questo forse era piuttosto il retaggio della nostra mentalità piemontese, quella di pensare prima di tutto alle cose concrete, costruttive.

Motti restò comunque profondamente deluso da come erano state interpretate la sue idee “tutti hanno creduto che io volessi dire: basta con l’alta montagna, solo più i sassi. Che peccato. Io volevo solo dire: chissa se un giorno saremo così intelligenti e umili da poter finalmente accedere al regno delle grandi pareti senza pagare un prezzo di dolore“.

Questa è una frase un po enigmatica, cosa intendeva dire esattamente? Certo salire le grandi pareti può comportare sofferenza, fatica e dolore, anche lui lo aveva sperimentato, almeno sulla Walker.

“Si è frainteso tutto. Non si è capito che la montagna resta sempre la montagna, e… ciò che era sacro resta veramente sacro e non può essere distrutto e dissacrato”.

Infatti lui lo aveva anche previsto e temuto: “la palestra crea anche degli svantaggi piuttosto notevoli… diviene il fine, e non più il mezzo, il banco di scuola su cui imparare a leggere e scrivere, con conseguente disprezzo per la montagna facile e con la convinzione che l’alpinismo altro non sia se non un modo di mettere in pratica su più larga scala quelle esercitazioni più adatte ad una palestra ginnica che ad una montagna… si giunge al  punto di trascurare l’arrampicata libera e ci si butta subito sull’artificiale dove è più facile ottenere risultati vistosi" da Rocca Sbarua e Tre Denti.

A questo punto bisogna precisare, per chi non ha dimestichezza con la terminologia alpinistica, che a quei tempi per palestre si intendevano massi e piccole pareti di fondo valle o anche di media montagna, su cui gli alpinisti di allora si allenavano all’arrampicata nelle stagioni in cui l’alta montagna era preclusa per via delle condizioni. Cioè non si trattava di quei muri artificiali con appigli artificiali, magari al coperto come li conosciamo ora.

Al momento in cui il Nuovo Mattino era all’apogeo, qualcuno a Torino aveva pensato che come era avvenuto per altre iniziative nate in questa città in campo alpinistico, ma non solo, e poi rapidamente diffusesi in tutta l’Italia come lo stesso Club Alpino, il CAAI, il GISM e altre, anche il nuovo verbo si sarebbe diffuso del pari.

Ma non fu così, il Nuovo Mattino di fatto non uscì mai fuori della cerchia cittadina.

Non solo, ma ad un certo punto si assisterà addirittura ad un ripensamento.

Lo stesso Crivellaro, ancora su Scandere 1984 scriverà: ”la più importante enunciazione fatta dallo stesso Motti, dei principi del rinnovamento dell’alpinismo, è divenuta col passar degli anni motivo di profonde delusioni”

Su la Rivista della Montagna, aprile 1987, Roberto Mantovani scrive che: “oggi il termine è sbiadito, non più di moda, superato.”

Motti fu anche protagonista di un fatto singolare, strano: fu dato per disperso sui monti tra la Val Grande e Ceresole Reale.

Si mobilitarono le squadre del Soccorso Alpino del Piemonte e della Val d’Aosta, ma senza risultato.

Dopo cinque giorni riappare ma non riesce a dare una giustificazione convincente della sua scomparsa. Tanto basta alle malelingue per costruire sul fatto le storie più fantasiose e malevoli.

Lui ne soffrirà molto, si chiuderà in se stesso. Chi lo conosceva dice che continuava a fare una modesta attività alpinistica, ma senza apparire.

Sono passati ormai molti anni da quei giorni, gli animi si sono placati, le polemiche si sono assopite. I giovani che praticano ora l’arrampicata sportiva hanno ben chiaro che questa e l’alpinismo sono due cose diverse.

Molti di loro hanno si e no “sentito parlare” di Motti.

Nei dintorni di Torino è ancora attiva la scuola di alpinismo col suo nome, ma al di fuori della cintura torinese non è rimasto molto.

Qui non si intende dare un giudizio sull’autore del ”Nuovo Mattino”.  Altri lo hanno fatto o lo faranno.

Qui si è semplicemente voluto sottolineare alcuni aspetti delle sue vedute e rimarcare quanto sostenevano e sostengono i suoi antagonisti, al solo fine di comprendere il personaggio, l’uomo.  

Che morirà suicida nel giugno del 1983. A trentasette anni.

 

Lino Fornelli

socio CAI Torino, GEAT e GISM

 


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