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Piccola avventura al Becco della Tribolazione

di Valentina Saggese, ex-allieva della Scuola di Alpinismo G. Gervasutti

“Quando senti soltanto il rumore dei tuoi passi sul sentiero e quello del tuo fiato, significa che ti trovi in un bel posto!”: questo è quello che esclama il mio compagno di cordata durante l’avvicinamento per l’attacco della nostra via.

Ci troviamo in Valsoera, stiamo percorrendo il sentiero che dalla diga di Teleccio conduce al Becco della Tribolazione. Insieme a noi un’altra cordata di amici, pronti anche loro ad affrontare tre ore di avvicinamento prima di poter attaccare la via prescelta. Sono le sette di mattina, la temperatura che percepiamo sulla pelle è piuttosto fresca, ma sappiamo che a breve il sole inizierà a scaldarci.

Lungo il sentiero comincio a cogliere la bellezza di questo luogo, il suo silenzio, la distesa di rododendri in fiore, gli innumerevoli roccioni sparsi per i pascoli che ci circondano, e quella cima, il Becco della Tribolazione, è davanti a noi, sul nostro orizzonte, la vediamo per tutto il cammino. Ricorda quasi la perfezione geometrica del Cervino, il sole lo illumina a pieno e noi siamo ansiosi di volerlo scalare, di volerlo scoprire.

Quando la mattina si parte per una salita, il proprio animo è ricco di entusiasmo, e i pensieri non sono rivolti a quanto saranno faticose e lunghe quelle ore di avvicinamento. Pensi soltanto alla gioia che stai provando mentre stai vivendo quel sogno, e assapori minuto per minuto quello che stai affrontando, che sia il tiro della via o che sia un faticoso cammino verso l’attacco. Spesso si considera soltanto la via vera e propria l’unico obiettivo della giornata, quando invece ogni minimo passo in montagna dovrebbe esserlo.

Finalmente arriviamo sotto il becco, ma dobbiamo ancora affrontare lo zoccolo, questo è uno dei momenti più pericolosi, qui è facile salire, bisogna arrampicarsi lungo roccioni o piccole cenge, ma proprio perché è facile che si rischia maggiormente. Per tutto l’avvicinamento scherziamo e sorridiamo, mentre qui, sullo zoccolo, siamo in silenzio e concentrati, quasi come se fossimo su un tiro difficile.

Ed eccoci all’attacco, la nostra via si chiama “Conta fino a zero”, mentre i nostri compagni attaccheranno la via subito accanto. Il primo tiro spetta al mio compagno, Gian, io affronterò il secondo, e cosi via a tiri alterni sino alla cima. Mentre ci prepariamo per la salita, il mio viso è cupo: sono alla ricerca della concentrazione necessaria, l’avvicinamento è stato faticoso, e ora è importante recuperare tutte le forze mentali.

Salito il primo tiro tocca a me, mi preparo, infilo di nuovo le scarpette, un po’ di magnesite sulle mani e comincio a toccare la roccia. Un appiglio dopo l’altro e inizio la mia salita, la via dovrebbe portare verso sinistra in diagonale per poi proseguire dritto lungo una placca liscia. Dopo un po’ di metri di scalata mi accorgo che sto sbagliando qualcosa, è troppo tempo che salgo e non ho ancora intercettato la placca, la roccia qui è marcia, non riesco a mettere friend o nut a sufficienza. È vero, il grado è facilmente affrontabile, sono sicura dei miei passi, prima di affidarmi ad una presa o un appoggio, batto con forza sulla roccia per verificare che non crolli. Il tiro è troppo lungo, doveva essere più breve… mi rendo conto di essere finita fuori via. A questo punto l’unico mio obiettivo in quel momento è di trovare la sosta o pensare di doverne costruire una se non dovessero bastare le corde. Avverto che la montagna mi sta respingendo, sento che forse questa volta ho esagerato, non avrei dovuto affrontare una via così complessa…forse non sono ancora all’altezza.

Manda il tuo articolo a info@caitorino.it, i pezzi migliori verranno pubblicati sul portale del CAI Torino!

Dopo qualche metro trovo la sosta, anche se la quarta, e finalmente mi sento fuori da guai, in una posizione più sicura e tranquilla. Recupero Gian, attendendo i suoi richiami nei miei confronti per non aver usato protezioni a sufficienza su una roccia così inaffidabile… richiami costruttivi e di fondamentale importanza per una giovane alpinista come me che si trova di fronte ai suoi primi sbagli.

Mancano ancora due tiri, vado avanti io lungo alcuni diedri fessurati che accolgono facilmente i miei friend. Concateno l’ultimo tiro, anche qui l’ascensione è tecnicamente facile, ma il tempo comincia a tradirci… sento dei forti rumori, sono dei tuoni… probabilmente è in arrivo un temporale.

Arrivata in cima preparo la sosta e mi assicuro con il barcaiolo, purtroppo intorno me soltanto nebbia e nuvoloni, non vedo il panorama che mi circonda; sono ponta a recupere il mio compagno, ma dopo qualche istante avverto delle strane sensazioni. Sento dei rumori mai sentiti prima che mi avvolgono, non posso allontanarmi da loro, non capisco, sembra che la montagna voglia dirmi qualcosa, e ora anche in testa, è come se avessi centinaia di formiche che corrono veloci sotto il mio casco, comincio a strofinare forte le mie mani sul mio viso e tra i capelli chiedendomi cosa mi stesse succedendo. Dopo pochi secondi un lampo poco distante da me e poi un forte tuono…ora è chiaro, c’è una quantità pazzesca di energia che invade tutta la cima…ho paura, ma è una paura controllata che non si trasforma in panico. So che la mia testa deve rimanere lucida, so che appena arriverà il mio compagno io dovrò essere pronta per scendere e soprattutto non dovrò trasmettergli nessuna preoccupazione, non dobbiamo commettere nessun errore. La nostra vita è legata da una corda, siamo una sola persona…in montagna questa è l’emozione più forte: sapere che due vite sono cosi unicamente legate, che una dipende dall’altra, e mai così tanto come in questo momento di pericolo.

Riusciamo a preparare le doppie velocemente e correttamente, e senza perdere la concentrazione arriviamo alla base della via e ci sentiamo finalmente tranquilli. Ci guardiamo e i nostri occhi sono lucidi, pieni di vita e di emozioni uniche che non potranno mai dissolversi.

Raggiungiamo l’altra cordata e insieme ripercorriamo il sentiero che ci ha condotti al Becco stamattina. Siamo stanchi, le gambe sono stufe di camminare, ma la felicità di essere arrivati su quella cima ci dà la forza di andare avanti, e quella stanchezza che proviamo è una stanchezza che non fa altro che arricchire la nostra serenità e questo è il regalo più bello che la montagna è capace di offrire.

e Valentina Saggese, ex-allieva della Scuola

Scuola Nazionale di Alpinismo G. Gervasutti


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