
La Scuola Gervasutti al Rifugio Dalmazzi
di Valentina Saggese, ex-allieva del corso di alpinismo della Scuola Gervasutti del CAI Torino
Questa volta niente funivia, niente Rifugio Torino, questa volta la meta è il Glacier de Triolet. Raggiungiamo il Rifugio Dalmazzi camminando lungo la morena che fiancheggia il piccolo torrente. Ad accompagnarci, il fronte del ghiacciaio, che riusciamo a vedere dalle auto sino al rifugio.
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Giornata all’insegna del puro relax… ma non è anche questo vivere la montagna? Sicuramente, a volte, è necessario fermarsi, non scalare, non avere soltanto gli occhi puntati sulla roccia e la concentrazione alla stelle. A volte è d’obbligo osservare quello che ci circonda… la montagna ha da insegnarci molto, anche solo restando ad osservare tutte le sue peculiarità: gli sbalzi di roccia, le dorsali, le creste, i piccoli pulvini che cercano di sopravvivere in questo ambiente avverso, i seracchi che formano il ghiacciaio, le cime più alte che segnano l’inizio del cielo e la magnifica sensazione d’infinito che ci regala l’insieme di tutti questi elementi.
Questo primo giorno la scuola ha da insegnarci un po’ di teoria riguardo le manovre per la sicurezza della cordata. Siamo tranquilli su un piccolo pianoro, attenti a quello che gli istruttori ci insegnano. Finite queste manovre ci dirigiamo verso il rifugio per la cena, e poi subito nelle camerate per la notte, pensando a quello che si sarebbe fatto il giorno dopo.
Vengono formati due gruppi di cordate, alcuni affronteranno la cresta Preuss e altri si dirigeranno al Mont Rouge de Triolet.
Ci aspetta un avvicinamento di circa un’ora e mezza per il Mont Rouge, ci incamminiamo lungo il sentiero che subito è facile e veloce, e poi prosegue fino ad arrivare ad un piccolo nevaio che riusciamo ad attraversare con sicurezza e attenzione. Cominciamo poi a mettere mano sulla roccia, non c’è più un vero sentiero, dobbiamo piano piano arrampicarci lungo roccioni gentili che ci offrono moltissime prese buone.
Arrivati al Mont Rouge, di fronte a noi un’imponente parete, che verso sinistra appare più abbattuta e ricca di incrinature, mentre via via che ci si sposta verso destra, la parete verticalizza e si percepiscono meno gli incavi nella roccia o le piccole cenge. Il primo pensiero è la paura, ma è una paura affiancata all’entusiasmo e alla voglia di scoprire fino a che punto le proprie capacità possono spingersi. Ho subito capito che quella fessura centrale, quella che sembra disegnata da un pittore a mano libera, sarebbe stata toccata dalla via che avremo affrontato con il nostro istruttore.
La via è ancora in ombra, le mani di noi tutti sono gelide, la roccia sembra non volerci invitare a salire, è davvero fredda. L’istruttore sale per primo, e il grado del tiro si moltiplica a causa della ridotta sensibilità alle mani dovuta al freddo. Ma arrivato in sosta, il timido sole comincia a farsi sentire, e finalmente la tensione e la paura che potevamo percepire viene quasi annullata.
Ed eccoci di fronte a quella fessura, quella che da sotto sembrava dipinta, ora è reale, è di fronte a noi, è bellissima, è molto irregolare, e non è affatto prevedibile. Comincio a sentire una sensazione forte, un bisogno quasi necessario di volerla scalare, di volerla scoprire per prima, di volerla esplorare timidamente… Comincio a infilare la prima mano nella fessura, ma non è una fessura come le altre, non accetta un semplice incastro ma vuole che tu sia completamente amalgamato con lei. La mia concentrazione in quel momento è unica, nella mia testa i pensieri si annullano, esiste soltanto lei, esistono soltanto i friend e i nut che devo riuscire a posizionare velocemente e correttamente perché saranno, oltre alla mia sicurezza in caso di caduta, anche un notevole supporto morale durante la salita.
Alzo lo sguardo e vedo la sosta, mancano pochi metri, la gioia che ho dentro è folle, ma guardando il mio viso non si percepisce, perché a volte certe soddisfazioni le teniamo gelosamente dentro di noi, con la paura che qualcuno possa portarcele vie o possa sminuirle. Arrivata ai due spit, preparo la sosta e recupero il mio secondo di cordata, nonché mio istruttore. Anche grazie a lui riesco ad arrivare in sosta serena, grazie alla tranquillità e alla fiducia che mi ha trasmesso prima di affrontare il tiro.
La via prosegue, un tiro ciascuno, un emozione dopo l’altra, accompagnate da un panorama mozzafiato: da quassù si vede l’interezza del ghiacciaio e anche la Val Ferret dalla quale siamo partiti.
Adesso è ora di scendere, tutte le cordate al Mont Rouge preparano le doppie per la discesa, e sicuramente anche i nostri compagni in cresta saranno di ritorno.
Arrivati tutti al rifugio, salutiamo gli altri compagni, tutti quanti con il sorriso sulle labbra, ma un sorriso vero, non sforzato. La giornata è stata per tutti entusiasmante: qualcuno ha dovuto fare i conti con la difficoltà tecnica, altri con la fatica dell’avvicinamento, altri con la tensione di camminare su una cresta…
Insomma tutti con qualcosa da aggiungere al proprio curriculum alpinistico, ma soprattutto con qualcosa da aggiungere al proprio bagaglio delle esperienze, che è sicuramente quello più importante, perché è quello che ci permette di affrontare ogni volta qualcosa di sorprendentemente unico. Poiché non è proprio la montagna l’esaltazione dell’unicità?
di Valentina Saggese, ex-allieva del corso di alpinismo della Scuola Gervasutti del CAI Torino
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