
Le origini dell’Unione Escursionisti Torino
Sottosezione UET del CAI Torino
In questo articolo pubblicato sull’Escursionista del 24 ottobre 1902, Silvestro Fiori padre fondatore e primo Presidente dell’Unione Escursionisti Torino, a dieci anni dalla nascita della Associazione ricorda i giorni emozionanti in cui “tutto ebbe inizio” a partire da una fredda ed insonne notte trascorsa al Lago della Rossa al cospetto della Croce Rossa sopra il Pian della Mussa.
C’era una volta un gruppo d'amici, non molto numeroso, ma irrequieto assai, che rifuggiva per antica consuetudine dal passare a Torino i giorni, i pochi giorni, liberi da ogni cura d'ufficio.
E quegli amici sollecitando col desiderio ardente che si squagliassero le nevi sulla montagna, ai primi sorrisi del sole uscivano trepidanti di gioia a perpetrare le loro grandi imprese, pensate, volute, sognate un inverno intero.
Grandi non perché fossero alte ma perché tornavano faticosamente improbe: e si capisce, se uscivano da un complotto che s'era imposti due termini che difficilmente si conciliano: tempo limitato, volontà illimitata. Ed erano faticose.
Nello zaino provviste commisurate al ventricolo ed ai muscoli d'un mulo, nel pensiero la convinzione che una sola dovesse essere la forza della volontà e quella delle gambe ed avanti sul sentiero la notte del sabato, di morena in nevaio la domenica, divallando di poggio in poggio la notte seguente ed avanti sempre fino all'ufficio il lunedì per riposare.
Erano faticose e non indegne del nome d'imprese quelle amene passeggiate che non potevano aspirare all'onore della cronaca per quanto di facchinesco avevano nella loro essenza, che fatte a scopo di salute avvelenavano collo strapazzo per 15 giorni l'organismo, ma che per l'entusiasmo di quel gruppo d'amici erano incentivo a faticare di più la prossima volta fino a buscarsi una congestione cerebrale.
E di quel gruppo d'amici fui anch' io nei giorni in cui qualche idealità di più si accordava passabilmente con qualche capello bianco in meno.
Un sabato sera del 24 Agosto 1892 io e l’amico Ardrizzoia partivamo da Torino per una delle nostre, o per essere più esatti, per una delle sue, carichi e bardati come Dio solo e noi sappiamo in quell'afoso tramonto.
La meta era... camminare sempre davanti a noi: una meta che sfugge e prima della quale non è difficile trovare quella più naturale della potenzialità di resistenza.
Si camminava da molte ore e la notte oscura, la lanterna inservibile, il sentiero accidentato rendevano penosa la marcia, tuttavia si camminava, spesso a quattro gambe, ma colla fede sicura, se non altro, che il sole avrebbe dovuto alzarsi sopra un punto qualunque della montagna nera, che senza pietà ci chiudeva in breve giro l'orizzonte.
E il bel sole venne, ed a' suoi raggi vivificanti dimenticammo disagio e sonno. L'alta valle, il lago della leggenda, il nevaio, l'eterno nevaio, tutto passò sotto i raggi del sole vivificante, ma passò anche il giorno e l'altra notte ci incolse in alto, durante la ricerca affannosa del rifugio.
In quel rifugio non dormendo, riposando con fatica, preoccupato in eguale misura dal pericolo che avevamo corso di non trovare un rifugio e da quello che correvamo d'averne trovato uno pieno di vento e di freddo, mi balenò al pensiero la prima volta l'idea di fondare a Torino una Unione di Escursionisti. Noi eravamo un gruppo, nelle nostre abituali peregrinazioni trovavamo dei dispersi e dei gruppi come noi e lassù sono presto annodate quelle relazioni che non si dimenticano tanto facilmente; se non che passato il momento lieto dell'incontro (un momento lungo talvolta come un sonnellino in comune, schiacciato all'ombra d'una roccia, più spesso come una fratellevole mangiatina), passato il momento ognuno prendeva pei fatti suoi, che magari erano gli stessi per tutti, ma che dovevano, appunto per rincontro, procedere per sentiero diverso.
E passato il giorno, tornati a Torino, sotto mentite spoglie, era caso riconoscere l'incontrato lassù, così che dei gruppi d'amici, ammalati dalla stessa passione, restavano sempre estranei l'uno all'altro e questo non era bello ed a questo bisognava ovviare.
Troviamoci, pensavo io, facciamo come una famiglia a noi che ha un ritrovo a Torino: di tante cognizioni, di tante pratiche singole facciamone una sola e grande a vantaggio comune, di tante forze isolate facciamo una gran forza comune, e chissà quante cose belle potremo fare noi tutti uniti.
E poi chissà un campo vastissimo e fecondo, oggi uno, domani dieci ed il resto? chi può dirlo il resto? E sul pensiero indeterminato, ma seducente, sognai di non dormire, ma forse dormii, poi che l'appressarsi ed il fuggire inconsulto d'un contrabbandiere mi diede le sensazione d'un risveglio.
A Torino ripensai all'idea, mi sorrise più bella che mai, la costrinsi nei limiti d'una certa praticità, d'un abbozzo di Statuto perfino e primo ne parlai ad Ardrizzoia, al compagno dagli entusiasmi sublimi. Ed Ardrizzoia al primo annuncio dell'idea crollò il capo e volle o parve dirmi: Ma c'è già...!
Poi discutemmo, convenne nelle differenze, confortò le mie argomentazioni, rilesse lo Statuto e fummo d'accordo.
Il primo passo; l'Unione contava già due Soci e prima di sera ne contava già cinque: un comitato provvisorio. E l'indomani i giornali cittadini davano ospitalità ad un comunicato in cui al colto ed all'inclita era rappresentato come qualmente a Torino si fosse costituito un comitato provvisorio allo scopo di ecc., ed il recapito era quello di casa mia.
Da quel giorno, e per molti in avvenire, vivemmo le giornate più ansiose della nostra vita.
Ogni biglietto da visita, ogni lettera, ogni più semplice richiesta era un battito accelerato del cuore.
La prima lettera di entusiastica approvazione era dell'amico avv. Margary, che immediatamente andavo a trovare a casa e che pregavo di far parte del Comitato provvisorio.
Zucchi, l'infaticabile Zucchi e Castelli erano venuti con entusiasmo, Pizzini e Gagnatelli erano del gruppo e divennero apostoli dell'idea.
Dato, per mezzo della stampa, l'indirizzo d'una Società che gentilmente volle ospitarci, sera per sera ci trovammo a ricevere i nuovi venuti con quell'animo col quale sì aspettano le persone più care e più desiderate e venivano e ad ognuno io dicevo e ripetevo quali erano le idee, quali i propositi, quale il programma che ogni giorno s'arricchiva di intenzioni nuove e geniali.
Coglievo e studiavo sul volto d'ognuno l'impressione prodotta dal mio dire ed erano momenti avvicendati di gioia e dì sconforto.
Ma i nomi e gli indirizzi crescevano frattanto su quella prima nota, che poco per volta diventava anche lei un argomento di persuasione pei nuovi e venne finalmente la sera della prima riunione plenaria.
Era il 19 Settembre del 1892 nella gran sala dell'Associazione Generale degli Operai in via Mercanti: una seduta in cui ci trovammo tutti d'accordo e dove un applauso lungo e convinto salutò la formola sacramentale che io dissi stando in piedi davanti a quella geniale accolta di aderenti: “Signori da questo momento dichiaro costituita l’Unione Escursionisti!”.
Era fatto. Seguirono altre riunioni per lo Statuto e per le cariche sociali, se non che, tramontata tutta una luna di miele, sorsero le prime difficoltà.
Avevamo bisogno d'una sede nostra: l'affitto si sarebbe potuto pagare coi contributi bimestrali da L.1, ma e il mobiglio? Ed il personale? Per quest'ultimo facile il rimedio: eletto presidente io avrei dovuto anche far da portiere, ma per l'altro?
E diventammo finanzieri. Col sig. Vincenzo Ferrero prima a titolo di consulto, col Consiglio poi discutemmo i vari progetti e data la necessità di rivolgerci al credito, era a quello dei Soci che bisognava ricorrere, non a quello privato. E così fu. Fatta l'emissione di una serie di obbligazioncine interne piovve il capitale e avanti colle spese, ma anche coi battibecchi pel diverso modo di vedere nell'impiego economico dei fondi.
In via Coito, in due stanze a pian terreno che avevano cessato per la circostanza d'essere scuderie o giù di lì, aprimmo la nostra prima sede. Io e l'amico Zucchi tappezzieri, decoratori e che so io, mettemmo l'ambiente all'onore del mondo ed in quelle due povere stanzette cominciò a ribollire tutta la esuberanza del nostro entusiasmo, della nostra smania di fare.
Due riunioni di famiglia v'erano in città che si dedicavano con amore all'escursionismo, l'una presso la Società La Polenta l'altra con ritrovo settimanale al Castel Vecchio e tutte e due con Berruto, Nasi, Lupo e Chiavero vennero ad ingrossare le nostre fila, vennero animati dai propositi migliori e solo allora andò delineandosi fortemente quel nucleo che doveva assicurare l'esistenza dell'Unione.
Nei primi tempi la vita nostra fu un rigoglio prodigioso. Novità della cosa e zelo di neofiti creò immediatamente uno stato molto artificiale di floridezza, una obesità che poteva spingerci ad azzardare troppo e che ci spinse realmente a cambiare locale triplicando la spesa d'affitto.
E frattanto le discussioni interne, quando si brancicava nell'incerto per trovare la strada migliore, assunsero un carattere acuto, parve degenerassero un momento, quando l'esito della prima gita sociale al Monte Ciabergia, cui convennero 100 partecipanti, tagliò corto nelle discussioni e ci disse che la via era stata trovata.
Ma tornati in calma bussava alla nostra porta la minaccia d'una disgregazione gravissima. I soci del momento disertavano in massa, l'esazione di L.1 per bimestre, fatta alla sede, accumulava spaventosi arretrati, le spese d'affitto triplicate con impegno di 5 anni, le obbligazioni da rimborsare, un ammanco doloso di cassa, il ciclismo che prendeva una voga straordinaria, tutto aggravandosi rendeva il vivere nostro molto penoso, ed un momento dubitai che tanto lavoro, che tante care speranze cadessero miserevolmente. Pure rimaneva piccolo, ma forte, un gruppo di eletti cui era lecito domandare qualunque sacrificio per l'Unione e questo gruppo era sempre quello simpaticissimo dei primi nostri e della Polenta rinforzato per virtù propria, deciso, fermamente deciso a vivere.
La gravità del momento io la conoscevo tutta. Anche fuori del Consiglio consultati i migliori ed i più decisi, trovai quella volontà che può ogni cosa ed allora scartato un progetto d'unione con un Circolo cittadino, ottenuta una riduzione sul prezzo d'affitto, vagliato senza pietose illusioni l'elenco inutilmente obeso dei
Soci, davanti all'assemblea dissi tutta intera la verità nello stesso tempo affermando la mia fede sicura nell'avvenire dell'Unione.
Dichiarai dimessi un centinaio di soci, altri cento radiati d'ufficio e presentai un bilancio preventivo, che conservo ancora fra le mie memorie dolorose, basato sopra un numero dì 130 soci ed avremmo dovuto essere 350.
Un funerale quella seduta, una notte che cadeva sul passato, ma dopo la quale avrebbe dovuto sorgere il sole che da quel momento brillò sempre sul nostro orizzonte.
Dichiarato altamente che preferivamo essere pochi ma convinti, alieni d'avere con noi chi sarebbe rimasto per compiacenza personale, prendemmo decisamente la nostra via e le sorti si rialzarono grado, grado, portandoci all'attuale stato di solida floridezza.
Oggi compiono dieci anni dal giorno in cui, pieno di fede, dichiaravo costituita l'Unione; oggi ancora onorato dalla fiducia dei miei consoci, nessuno più di me sente la profonda compiacenza dell'opera nostra e nessuno più di me è convinto dell'avvenire splendido riservato alla Società!
Quante diversità di vedute, sempre lealmente intese pel bene sociale, quanti compagni di lotta e di lavoro passarono in questo decennio e quanti amici rimangono ancora al loro posto, e frutto di tanta opera comune un risultato brillante.
Per lui in questa data lieta ed augurale, guardando fiduciosi all'avvenire, stringiamoci la mano noi che siamo rimasti, voi che siete venuti ad apportare energie nuove e giovani e tutti assieme mandiamo un saluto a chi non è più con noi, ma che ha voluto bene all'Unione.
Silvestro Fiori
Sottosezione UET del CAI Torino
Tratto da “l'Escursionista” n°11 BOLLETTINO MENSILE DELL'UNIONE ESCURSIONISTI DI TORINO del 24 ottobre 1902