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Passione di Roccia

di Franco Perlotto, guida alpina e gestore del Rifugio Boccalatte - Piolti alle Grandes Jorasses

Finita la rampa di rocce facili, Leonardo iniziò ad arrampicarsi verso destra. Lo vide salire lungo alcune placche tanto lisce, che soltanto i suoi occhi potevano avervi individuata una linea di salita. A poco a poco lo guardò svanire al di là di un arrotondamento della montagna. Prima scomparve una mano. Poi il braccio rilassò leggermente la tensione del bicipite per trasferire tutta la forza sulle anche che gli s’indurirono. Una gamba si sporse sul vuoto, al di sopra dei ghiaioni. I fianchi gli si spostarono lenti verso destra. Il busto iniziò a seguirne i movimenti. Prima ondulò verso oriente, poi si spostò dalla parte opposta. Con un dondolio mosse il braccio sinistro come fosse stato spinto da un’energia inconsueta. Era simile al vigore sommerso del fiume che sulla superficie lascia apparire immobile il pelo dell’acqua, mentre sotto la corrente si trascina irruenta.

Per ultima vide andarsene la mano. Le dita di lui si rilassarono e piano piano si staccarono dalla montagna. Poi si sollevarono verso il cielo, lontane dalla roccia, dov’erano state appoggiate. All’improvviso, mentre di Leonardo non udiva che il respiro, s’accorse che stava aggrappandosi alla corda con tutte e due le mani, come per trattenerlo più forte. Dall’istante in cui aveva incontrato quell’uomo, quasi cinque anni prima, non l’aveva più dimenticato nemmeno per un istante. Anche se ormai si frequentavano regolarmente, non aveva smesso di trasecolare per lui. Non era alto, ma il suo corpo sembrava volere esasperare un’eleganza che in lui comunque era innata. Nemmeno poteva immaginare Leonardo diverso da come si muoveva sulle rocce, leggero come un cerbiatto, forte come un daino, veloce come una camoscio. Ma nonostante il gesto rude di arrampicarsi, in lui ogni cosa era garbo, era finezza. Leonardo era distinto come un felino delle nevi. Era signorile ed elegante. Amava quell’uomo.

Quando lo raggiunse, al di là della placca, sopra le loro teste s’aprì una fessura che solcava tutta la parete. Oltre duecento e cinquanta metri di linea diritta, scavata dalla natura su quel formidabile pilastro della montagna, proprio perché loro la potessero scalare. Dopo una ventina di metri la spaccatura s’arcuava con uno strapiombo che sporgeva a tetto sopra ai ghiaioni bianchi. Trattenne il respiro. Si guardò per un attimo le mani esili e pallide, poi pensò a quelle di Leonardo che simili agli artigli dell’aquila si stavano aggrappando al bordo dell’abisso. Erano grandi le mani di quell’uomo, larghe come badili. Leonardo afferrò con la sinistra un’asperità della roccia, mentre con l’altra cercò un chiodo tra quelli che erano appesi alla cintola. Si sporse nel vuoto e si allungò il più possibile verso l’alto. Infilò il chiodo nella fessura: era della misura esatta. Prese il martello e iniziò a battere con forza, finché il suono non divenne un tintinnio di campane. Poi si fermò. Respirò profondo e il suo fiato parve giungere fino al punto di sosta. I capelli s’erano mossi leggermente e gli ricoprirono la fronte. Non era spettinato, non lo si era mai visto in disordine, ma così sembrò più bello.

Leonardo salì lungo la linea della fessura. Metro dopo metro s’inerpicò verso il cielo. Stava così bene vicino a quell’uomo che nemmeno s’accorse delle difficoltà della montagna. Era l’unica spiegazione che giustificasse quel suo accompagnarlo in sforzi tanto cruenti. Stava bene con lui. Quando si sta bene con un uomo si è capaci di seguirlo in capo al mondo. Ma quella parete era davvero impressionante. All’improvviso, come un temporale d’estate, transitò veloce nella sua mente che poteva anche morivi su quella roccia. L’attraversò il dubbio che forse stava seguendo quell’uomo soltanto perché era uno scalatore famoso, una grande guida alpina. Ma poi giurò che non poteva essere vero. Perché dunque si trovava su quella fessura strapiombante? La sola sua passione per la montagna non era sufficiente a darne una ragione.

Giunse l’imbrunire che la fessura non voleva ancora terminare. La parete scorreva sotto ai suoi piedi fino ai ghiaioni che da lassù apparivano piatti. Ad un tratto Leonardo si fermò. S’appese ad un chiodo che aveva appena piantato nella roccia e scrutò a lungo verso l’alto senza profferire parola. Poi guardò giù. Sorrise e piegò la testa da un lato. Con la mano libera scostò i capelli dalla fronte e ritornò pettinato, impeccabile come gli piaceva sentirsi, sempre.

“Oggi non riusciamo ad arrivare in vetta”, disse. Poi sorrise di nuovo, quasi per non volere intimorire. Ma la prospettiva di una notte appesi a quel vuoto orrendo spaventava ugualmente.

“C’è qualche terrazza là sopra?”, gli chiese con un filo di fiato.

“No. Sempre fessura, liscia e strapiombante”, rispose Leonardo con voce ferma, come a non voler farsi prendere nemmeno lui dai timori.

La sera calò che l’aveva appena raggiunto in un punto di sosta. Leonardo aveva piantato alcuni chiodi sicuri che potevano sorreggere entrambi per una lunga notte appesi alle corde. Appena tutto fu pronto, Leonardo si accostò e si accarezzò i capelli con un gesto veloce della mano. Poi disse:

“Buona notte”.

“Buona notte a te”, rispose con un sorriso. Quello fu l’inizio di una lunga chiacchierata che durò a tratti fino al mattino. Parlarono di tutto quella notte. Si raccontarono delle stelle e della luna. Si confidarono della vita e della morte. Discussero di montagne e di paura. Sussurrarono di streghe e di folletti. Ogni tanto il sonno li sopraffaceva, ma le corde che tagliavano la carne sulle cosce e il freddo pungente di quella parete a settentrione li risvegliava ad ogni piccolo torpore. Così ricominciavano a chiacchierare sommessi, appoggiati tra loro sopra a quel vuoto terrificante.

Quando la luna apparve finalmente da dietro la montagna, accompagnata da una nuvola di passaggio che l’aveva nascosta fino a sopra il pilastro e di colpo l’aveva mostrata al mondo, accecò gli occhi di entrambi come i fari della balilla di Leonardo, quando a notte entrava dal cancello di casa sua a Vicenza. Fu felice di vederla, quasi come un’alba prematura che li avrebbe in fine tolto da quella montagna. Ma la notte fu ancora lunga e le ombre spettrali sulle ghiaie imbiancate da quella luce, li accompagnò come fantasmi fino all’alba.

Il gelo tormentoso del sorgere del giorno non fece indugiare Leonardo nemmeno un secondo. Lo vide districarsi con mosse scaltre dalle corde che l’avevano sostenuto su quel baratro per tutta la notte e in pochi istanti fu pronto a ripartire. Seguirono la fessura che a poco a poco iniziò a calare le proprie difese. Ora curvava lenta verso destra e in poche decine di metri tutto apparve più semplice.

Raggiunsero la cima di quel campanile di roccia correndo sugli ultimi sfasciumi sgretolati dai fulmini. Ad un metro dalla vetta si fermò di scatto. Anche le mani di Leonardo si fermarono all’improvviso lasciando cadere a terra la corda che aveva recuperato veloce. Lo guardò per un attimo, poi si lanciò verso di lui. Leonardo spalancò le braccia ed entrambi si afflosciarono addosso senza più forze. Sentì i suoi muscoli induriti dallo sforzo che si stringevano intorno alla vita. Sentì il calore del suo torso accaldato dalla fatica. Sentì l’odore acre del suo sudore invadere ogni parte del corpo. Appoggiò la testa sulla spalla di lui, mentre il ciuffo dei capelli di Leonardo cadde di nuovo sulla fronte. Poi si risollevò e lo baciò su una guancia. Era felice. Leonardo sorrise.

Non era ancora mezzogiorno e c’era tutto il tempo per poter tornare a valle. Ma non attesero nemmeno un istante. Il cielo era terso e le nuvole che durante la notte s’erano viste sparse qua e là nel cielo come mucche in un pascolo alpino, erano scomparse. Leonardo inforcò una cresta in direzione di meridione che secondo lui li avrebbe portati verso la base della torre. Appena giunse sull’orlo del precipizio piantò due chiodi e v’infilò la corda doppia. Vi si appese e scivolò via fino a sotto lo strapiombo. Vide scomparire Leonardo in un attimo e attese in silenzio sull’orlo del dirupo. Il suo urlo giunse puntuale:

“La corda è libera. Parti”.

S’attaccò e scese veloce verso di lui che l’attendeva su una sporgenza, dove si potevano appoggiare soltanto i piedi. Leonardo portò un braccio intorno ai suoi fianchi e con un movimento svelto andò a raggiungere con la mano il cordino che collegava i due chiodi che nel frattempo aveva piantato alla sua destra. Con un lungo passo scavalcò il suo corpo, strusciandosi un poco. Ebbe un lungo brivido e fremette. Poi, con pochi salti lungo la corda, furono alla base della torre. Le tensioni calarono all’improvviso e si accinsero muti a compiere i gesti di rito. Leonardo raccolse la corda, ma si fece serio. Penetrò il suo sguardo con gli occhi. Sospirò e disse:

“Dopo tanti anni di scalate, per la prima volta, questa notte, ho pensato alla morte con un senso di paura”.

“Il destino dei grandi uomini è di dovere sembrare immuni allo sgomento del trapasso”, disse.

“Falsa chimera. Sono diventato paladino dell’altrui paura del vuoto. Mio malgrado”.

Tacquero e si lasciarono tormentare ognuno dai propri dubbi. Quell’uomo meraviglioso aveva voluto mostrare la profondità del suo animo indifeso. Non dissero più nulla fino a quando non si rimisero in marcia giù per i ghiaioni. Il bivacco imprevisto sulla parete li aveva fatto ritardare di un giorno tutta la loro vita. Leonardo doveva correre rapido giù al paese, perché aveva degli impegni al municipio dove lavorava.

La loro avventura era terminata. Il sentiero s’era fatto ampio e poterono camminare vicini. Le loro mani, come mosse da una forza incontrollabile, estranea alla loro volontà, scivolarono l’una nell’altra. Per un attimo si strinsero forti. Percorsero così una decina di metri fino a dove partiva il sentiero che tagliando in costa alla montagna avrebbe ricondotto alla strada. Leonardo di lì sarebbe sceso giù dritto, verso valle. Con uno strattone, quasi allo stesso istante, si trascinarono più vicini e si abbracciarono stretti, com’era successo in cima alla montagna. Dopo un istante fecero un passo indietro, ognuno verso la propria strada, quasi spaventati di ciò che avevano fatto.

“Ciao Rino”, gli disse Leonardo con la testa piegata da un lato e col suo solito sorriso sulle labbra. “Non correre con l’auto. Scrivimi presto”.

“Ti voglio bene”, pensò Rino. Ma non glielo disse.

Alzò gli occhi e udì il rumore dei sassi mossi dagli scarponi di Leonardo giù per il sentiero che portava a valle. In un momento Rino vide scomparire dietro ai mughi prima le spalle massicce, poi il collo robusto. Infine scomparve anche il suo ciuffo, sempre pettinato di lato. Il Campanile del Sassolungo che avevano appena scalato per la prima volta, era già scomparso dietro alle quinte della grande parete settentrionale.

“Ti voglio bene”, voleva gridargli. Ma si voltò e s’incamminò sul suo sentiero con la gola annodata, come fosse quella l’ultima volta in cui l’avrebbe rivisto. S’avviò lento verso il tornante della strada che saliva in direzione del passo a riprendersi l’auto. Poi via di corsa verso il suo studio professionale di avvocato a Vicenza.

Salame del Sassolungo 2836 m
Leonardo Emilio Comici
Severino Casara
28 e 29 agosto del 1940


Per non perdere la tenerezza, avrebbe detto El Che. Ho fatto leggere questo racconto a Spiro Dalla Porta Xidias quasi vent’anni fa al Rifugio Pellarini sulle Alpi Giulie che gestivo. Lo lesse d’un fiato. Poi asciugandosi le lacrime balbettò: “Questo bellissimo racconto lo farai leggere a qualcuno soltanto quando io sarò morto”, e mi abbracciò. Lo ascoltai. Uno dei grandi soprusi dell’alpinismo è stata la condanna a priori che il mondo degli scalatori ha inflitto a Severino Casara, forse proprio a causa della sua dichiarata omosessualità, a prescindere da quei famosi due o tre metri sul Campanile di Val Montanaia. Questo è un racconto che ho creato sui fatti realmente accaduti a pochi mesi dalla morte di Emilio Comici. Ho frequentato Casara negli ultimi anni della sua vita nel suo appartamento/museo di Viale Margherita a Vicenza. Sia Spiro che io eravamo stati messi al corrente di questo innamoramento, sebbene quasi sicuramente non corrisposto al di là della loro forte amicizia. Ora che nemmeno Spiro non c’è più e i fatti sono relegati alla storia, mantengo la promessa fatta. Spero questo aiuti un pochino a rivalutare il personaggio e il genio di Severino Casara... senza perdere la tenerezza.

Franco Perlotto
alpinista e gestore del Rifugio Boccalatte - Piolti alle Grandes Jorasses



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